Non bisogna essere reazionari per accorgersi che la nostra amata Serie A non è più l’Nba del calcio che è stata nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Congiunture sfavorevoli, clamorosi errori strategici, scandali, meriti altrui: sono tante le ragioni che spiegano la perdita di quota del calcio italiano negli anni Duemila. Tra i molti effetti deleteri di questa decadenza, degno di nota è stato il proliferare improvviso della nostalgia, col web che è stato invaso da scriteriati paragoni tra onesti mestieranti della Serie A degli anni Ottanta-Novanta e fenomeni del calcio moderno.
Ecco, questo non sarà un articolo nostalgico. Non guarderemo ai bei tempi in cui da noi giocava Ciccio Palmieri e non quel brocco di Neymar, né sospireremo su quanto fosse bello ascoltare le partite alla radio invece che guardarsele in SuperHD sul proprio 62 pollici. Proveremo a raccontarvi una delle storie più interessanti relative al periodo più luminoso di sempre della Serie A, quello che va dalla riapertura delle frontiere allo scandalo di Calciopoli. Senza la pretesa di insegnare nulla o di ridimensionare le imprese dei campioni di oggi.
Abbiamo scelto un paradosso, quello dell’Atalanta 1987-‘88. Per evidenziare il predominio assoluto della Serie A degli anni Ottanta e Novanta, ci è parso iconico il ruolo della Dea, che non giocava in A ma in B, e fu comunque in grado di bussare alla sala del trono europeo giungendo alle semifinali della Coppa delle Coppe. Certo, quella fu un’annata anomala, terreno fertile per gli underdog, come dimostrano i trionfi di PSV Eindhoven in Coppa dei Campioni e Bayer Leverkusen in Coppa UEFA. Ma è una considerazione che non alleggerisce di un grammo il peso dell’epopea atalantina: in oltre 60 anni di storia di coppe continentali, solo il Cardiff City, nel 1968-‘69, era stato capace di una simile impresa partendo dalla serie cadetta, e nessuno ci è più riuscito negli anni a venire.
La squadra del presidente Bortolotti si era guadagnata l’accesso all’Europa grazie al raggiungimento, l’anno prima, della finale di Coppa Italia poi persa contro il Napoli di Maradona. Con gli azzurri proiettati sul palcoscenico europeo più prestigioso, quello della Coppa dei Campioni, furono i bergamaschi a staccare il pass per la Coppa delle Coppe. Tuttavia, il maggio del 1987 aveva portato in dote anche la retrocessione in Serie B, e il ritorno nella massima serie non poteva che essere l’obiettivo primario dei nerazzurri per la stagione successiva.
Glenn Stromberg, simbolo di quella Dea.
Fondata sul carisma di Glenn Stromberg (il vichingo che quell’anno, pur di restare in nerazzurro, aveva rifiutato il ricco ingaggio offerto dalla Roma del suo mentore Eriksson), i gol della coppia Garlini-Cantarutti e l’intelligenza di un giovane e baffuto allenatore, Emiliano Mondonico, approdato a Bergamo dal Como proprio quell’anno, l’Atalanta si rese protagonista di una cavalcata indimenticabile, raggiungendo la promozione in A e tenendo alta la bandiera italiana in Europa, in un’annata in cui le squadre di A non avevano fatto altro che rimediare magre figure.
E dire che non era iniziata nel migliore dei modi. L’esordio contro i dopolavoristi gallesi del Mertyr Tydfil fu un mezzo fiasco: due autoreti di Icardi e Progna e sconfitta amara per 2-1, fortunatamente ribaltata al ritorno grazie ai gol di Oliviero Garlini e Aldo Cantarutti (2-0). Superato con qualche apprensione lo scoglio dei sedicesimi, i bergamaschi si trovarono di fronte un altro avversario alla portata, l’Ofi Creta. Ancora una volta l’approccio non fu ideale e l’Atalanta tornò dall’isola con un kappaò sul groppone (1-0), ma anche in questo caso riuscì a guadagnarsi la qualificazione al Comunale, con un 2-0 firmato Nicolini al 22’ e Garlini al 68’.
L’Atalanta tornò in campo quattro mesi dopo, il 2 marzo del 1988. La truppa italiana era stata già da tempo sfoltita dei suoi pezzi da novanta: in Coppa Campioni il Napoli era caduto sotto i colpi del Real Madrid già ai sedicesimi, Milan e Inter, in Uefa, fatte fuori dall’Espanyol, mentre aveva resistito il Verona, che tuttavia salutò la compagnia in primavera, steso ai quarti dal Werder Brema. Questa volta l’urna era stata tutt’altro che benevola con la Dea, assegnandole lo Sporting Lisbona, proprio la squadra che l’aveva eliminata nell’unica precedente esperienza europea, quella della Coppa delle Coppe del 1963-’64. A scacciare i fantasmi ci pensarono i soliti Nicolini (su rigore) e una zampata mancina di Garlini, e il ritorno al José Alvalade sembrava improvvisamente in discesa.
La sfida con il Malines.
Impressione ingannevole, ovviamente. L’Atalanta, infatti, fu costretta a presentarsi in Portogallo priva di due cardini come Stromberg e Garlini, e un match sulla carta agevole si trasformò in uno di quei classici assedi che da sempre impreziosiscono la letteratura calcistica italiana. I lusitani si lanciarono all’assalto della porta atalantina sin dai primi minuti, ma fecero breccia soltanto a metà ripresa, grazie a un colpo di testa di Houtman che sorprese Piotti leggermente fuori dai pali. L’atmosfera divenne bollente e pochi minuti dopo lo Sporting raddoppiò con Jorge: ma per fortuna di Mondonico l’arbitro ravvisò un’inesistente carica sul portiere (in realtà Piotti era quasi all’altezza del dischetto del rigore) e decise di annullare, trasformando l’assedio in una corrida. Ma poi si materializzò una secchiata di acqua gelida sotto forma di Aldo Cantarutti, che grazie alla lama più affilata del calcio italiano pre-Sacchi, il contropiede, infilzò al cuore le speranze dello Sporting, proiettando la Dea più in alto del paradiso.
A quel punto sulla strada per Strasburgo l’Atalanta si trovò di fronte il Malines. D’accordo che le alternative si chiamavano Ajax campione in carica e Marsiglia futura grande d’Europa, ma col senno di poi fu il peggior abbinamento possibile. Come poi si trovò a constatare il Milan un paio di anni più tardi, quella belga era una squadra collosa, ottimamente organizzata dall’ex Ajax De Mos, con un fuoriclasse in porta (Michel Preud’Homme) e due attaccanti molto pericolosi in avanti, l’israeliano Ohana e l’olandese den Boer. Non a caso, furono questi due a segnare i gol che stesero l’Atalanta nel match di andata, anche se quello più importante fu siglato da Stromberg sugli sviluppi di un calcio di punizione, che lasciò ai bergamaschi più di una speranza concreta di capovolgere le sorti della contesa al Comunale, come già era accaduto nei primi turni.
La Dea è in semifinale
E per un attimo sembrò proprio quello l’esito calibrato, quando Garlini portò in vantaggio l’Atalanta dal dischetto facendo ribollire 40mila cuori innamorati che avevano assiepato gli spalti. Ma a volte è questione di centimetri, a volte è questione di destino. Centimetri, come quelli che hanno impedito al colpo di testa di Fortunato di insaccarsi invece di stamparsi sul palo, accompagnato dalle onnipresenti dita di Preud’Homme. Destino, come quello che presentò il conto ai nerazzurri quando l’arbitro non si avvide di un evidente fallo da rigore su Stromberg, a mo’ di contrappasso per il regalo ricevuto a Lisbona. E subito dopo il Malines picchiò duro: al 56’ pareggio spettacoloso di Rutjes (di professione ruvido difensore), a 10’ dal termine la sentenza in contropiede di Marc Emmers. E fu la fine. I belgi volarono a Strasburgo per prendersi la coppa, all’Atalanta restò una magnifica storia da ricordare.