Loris Boni, bresciano di Remedello, “guerriero-tuttofare” del centrocampo, ha calcato il palcoscenico della Serie A negli anni ’70 con le maglie di Sampdoria e Roma (dove si era trasferito per la bellezza di 800 milioni di lire). Purtroppo, un brutto infortunio patito nel derby capitolino, lo costrinse ad una seconda parte di carriera in tono minore rispetto alle premesse.
La tua ascesa è stata fulminea: esordisci a 17 anni nella Solbiatese e nel giro di due stagioni ti ritrovi nella Samp in Serie A; come è stato l’impatto con il massimo campionato?
“Molto emozionante; ho portato con me quello che avevo imparato nella Solbiatese e ho cercato di rubare ogni più piccolo dettaglio ai grandi campioni che ho incontrato arrivando a Genova”.
Loris Boni in blucerchiato
Il tuo primo tecnico in Serie A è stato un vero maestro come Heriberto Herrera; cosa puoi raccontare di lui?
“Gli devo tanto, per non dire tutto. Oltre ad avermi fatto esordire e migliorare a livello tecnico, mi ha permesso di crescere profondamente anche a livello umano. Lo considero un vero padre”.
Negli anni in blucerchiato hai avuto grandi compagni di squadra, come Lippi, Lodetti, Battara, Cacciatori; con chi hai legato maggiormente?
“Ho avuto un buon rapporto con tutti. Ti posso dire però, che la mia stella polare è stato Luisito Suarez. Non me lo aspettavo ed invece mi ha preso proprio a cuore”.
In quegli anni guadagnasti anche la maglia azzurra, anche se solo (si fa per dire) quella dell’Under21 e Under23. Che emozione è stata vestire la maglia dell’Italia?
“Ho fatto anche una presenza nella sperimentale di A insieme a giocatori del calibro di Facchetti, Graziani e Pulici, tra gli altri. Indossare la maglia azzurra è stata l’emozione più grande di tutta la mia carriera calcistica; lasciami dire che quando mi capita di vedere un giocatore fingere un infortunio per evitare la convocazione in Nazionale, mi si stringe il cuore”.
La Roma ti prese per molti soldi, ma mister Liedholm ti faceva giocare in un ruolo che non era propriamente il tuo. Ti se mai chiesto come mai?
“Sinceramente non me lo sono mai chiesto. A me interessava giocare e dimostrare il mio valore. Al mister devo solo dire grazie, perché anche lui – come Herrera – è stato un vero maestro per il sottoscritto. L’impatto non è stato facile. Passare da una città tranquilla come Genova ad un’altra caotica come Roma è stato un evento ‘traumatico’; non ho mai dato peso al fatto che mi avevano pagato molti soldi per l’epoca, anche perché io quei soldi non li ho mai visti! (scoppia a ridere NdR.) Purtroppo, un brutto infortunio ha interrotto di fatto la mia scalata verso traguardi ancora più importanti”.
Parli ovviamente dell’infortunio avuto nel derby ad opera di Giorgio Chinaglia?
“Come dicevo pocanzi questo evento ha cambiato la mia carriera. Avrei dovuto essere convocato per i Mondiali in Argentina (1978) – ero nella lista; purtroppo, mi ci vollero un paio d’anni per guarire completamente; ad essere sincero non sono più tornato più quello che ero prima”.
Secondo te c’è stata intenzionalità in quell’intervento?
“Preferisco non parlarne. Dico solo che non è stato un intervento simpatico”.
Non hai segnato molti gol ma quelli che facesti furono o molto belli oppure decisivi; ne ricordi qualcuno in particolare?
“Certamente: quello a Torino il 20 maggio 1973! Con quel gol la mia Samp si salvò; come posso dimenticarlo?”.
A Cremona, hai conosciuto un giovanissimo Gianluca Vialli; date le circostanze non posso esimermi dal chiederti un ricordo.
“Quella che ho ancora oggi davanti ai miei occhi è la figura di un ragazzo fantastico, ricco di talento; si vedeva da allora che sarebbe arrivato nell’Olimpo del pallone”.
Appesi gli scarpini, hai deciso di intraprendere la carriera di allenatore come mai?
“Terminata l’attività agonistica sentivo che era arrivato il momento di tramettere qualcosa agli altri: i miei valori, il mio credo. Purtroppo, negli anni, ho capito che questi valori non bastano più e questo – lasciami dire – per me rappresenta un vero e proprio dispiacere”.
Più bello fare il giocatore o il mister?
“Il calciatore senza alcun dubbio”.
Ricordi giallorossi, compreso l’infortunio
Il tuo idolo?
“Mario Bertini nell’Inter era il mio calciatore di riferimento; lo era a livello tecnico ma soprattutto per le qualità umane”.
Il giocatore più forte con cui hai giocato?
“Ti rispondo ancora una volta Suarez, anche se ho giocato con molti giocatori forti”.
Il tuo soprannome era “il guerriero” perché in campo eri un vero lottatore; qual era il tuo segreto?
“A Roma mi chiamavano ‘il gladiatore’ perché non mollavo mai; sapevo di essere inferiore ad alcuni a livello di qualità tecnica e allora sopperivo con le mie corse”.
Possiamo dire che sei stato un predecessore di Gennaro Gattuso?
“Mi permetto di dire che avevo piedi migliori”.
Qualche anno fa collaborasti con la testata Inside Roma, con la rubrica “State Boni se potete”, commentando le partite della Roma, quanto sei rimasto legato ai colori giallorossi?
“Moltissimo. I tifosi della Roma, tutt’oggi mi ricordano con grande affetto. Ma per la verità sono molto legato anche a Genova e ai tifosi della Samp”.
Hai scritto il libro “Io Loris” (il ricavato dalle vendite è devoluto a Pane Quotidiano, un’associazione senza fini di lucro da sempre a fianco di chi ha bisogno) dove racconti molti aneddoti curiosi; ce ne riporti uno in particolare?
“Alla Roma, al termine dell’allenamento erano soliti portare del thè per dissetarci. Io non lo dividevo mai con nessun compagno; così un giorno, al posto del thè ci misero dentro un noto lassativo! Diciamo che mi hanno impartito una lezione di vita”.
Credi ancora nella possibilità di tornare su una panchina?
“Non nego che avrei ancora voglia di sperimentarmi nel ruolo, anche se negli ultimi anni, con tutto quello che è successo, mi sono un po’ allontanato da questo mondo. Vorrei solo che un presidente mi chiamasse per dirmi: ‘Vorrei che ad allenare la mia squadra fossi tu, Loris!’. Ecco in questo caso accetterei con entusiasmo e con la mia proverbiale grinta!”.