Con quel cognome così Giorgio Magnocavallo non può che essere indimenticabile. Ma l’ex calciatore cresciuto nell’Inter, che oggi ha 64 anni, ha avuto meriti anche sul campo. Nato l’11 aprile 1957 in Puglia, Magnocavallo si è spostato con la famiglia, ancora bambino, a Bergamo dove ha iniziato a giocare a calcio: notato dall’Inter, dopo aver assaggiato la Primavera nerazzurra e aver disputato una gara in Coppa Italia con la Beneamata (Inter-Bologna 0-1 del 22 giugno 1975), ha iniziato la gavetta con il Lecco, in Serie C, arrivando in B già a 19 anni, nel Varese, per poi giocare con Genoa, Triestina e soprattutto nell’Atalanta, con cui ha fatto il grande salto in Serie A, nel 1984.
Nell’estate del 1985 il presidente biancoceleste uscente Giorgio Chinaglia lo porta alla Lazio, nella quale, in due sofferte stagioni, si fa apprezzare dai tifosi della Capitale. Magnocavallo fuori dal campo diventa famoso per il suo carattere gioviale, propenso agli scherzi e al buon umore. In campo invece è un giocatore versatile, in grado di giocare da terzino sinistro o da mediano, bravo nelle incursioni offensive e a procurarsi, talvolta, qualche rigore prezioso.
Anche Magnocavallo è nell’indimenticabile gruppo guidato da Eugenio Fascetti che, nonostante una penalizzazione di 9 punti (in un’epoca in cui la vittoria ne vale 2), riesce a salvare la Lazio dalla Serie C, dopo una drammatica serie di spareggi per la retrocessione. Il jolly bergamasco è in campo da titolare sia nella gara vinta all’ultima giornata con il Vicenza grazie a un gol di Fiorini che nel match decisivo contro il Campobasso, deciso da una rete di Poli. Poi Magnocavallo vola verso altri lidi, chiudendo la carriera con Barletta, Spal e Formia, ma lasciando un bel ricordo tra i tifosi biancocelesti, legati per sempre alla “banda del meno 9” e a quel jolly da buffo cognome. «La stagione 1986-’87 la ricorderò per sempre – racconta – ero capitano dell’Atalanta in Serie A e ho rischiato di scendere in C con la Lazio». Già, perché? «Aveva più ambizioni». Impossibile dire no ad un presidente speciale: «Mi chiamò Chinaglia in persona per convincermi. Aveva un grande entusiasmo e la Lazio sempre nel cuore; la sua passione l’ha rovinato». Sapeva come divertirsi Magnocavallo: «Mi è sempre piaciuto fare gli scherzi».
E via di aneddoti: «Mi ricordo quando Vincenzo D’Amico…» Poi ci ripensa: «Questo non si può dire». Meglio cambiare: «Davo appuntamento in un ristorante a 100 km, gli altri arrivavano ma in realtà il ristorante non esisteva». Il più permaloso? «Malgioglio. Era un po’ introverso, lo prendevamo in giro perché veniva dalla Roma».
E giù risate. Poi la voce diventa seria: «Avevamo paura di finire in Serie C. Le gambe non ci reggevano più, è stata un’annata difficile». La rete di Poli con il Campobasso è stata la fine di un incubo: «Una liberazione, come uno scudetto». Aria tesa prima della partita, una settimana che Magnocavallo ha vissuto lontano dai compagni: «Fascetti mi aveva dato il permesso per andare al corso allenatori». Difficile pensare ad altro, però: «Non ero molto attento, la testa era agli spareggi». Gruppo unito quella Lazio: «Come una fa miglia, quella era la nostra forza. In campo giocavamo sempre per la maglia, nessuno si tirava mai indietro». Individua un leader: Mimmo Caso: «La sera veniva nelle camere per caricarci».