A scuola, scriveva bene ma andava spesso fuori tema. Già artista del pensiero laterale, figlio di contadini dal cervello fino, Eraldo Pecci ha sempre compensato con la rapidità di intuizione e di esecuzione la lentezza nella corsa. Preferiva far correre il pallone, che distribuiva con passaggi d’esterno e geometrie superiori alla media. Cresce in una Bologna degna di Pupi Avati, la Bologna del bar delle sorelle Fontana, alla Croce di Casalecchio. Teorico dell’antropocentrismo, la palla deve ruotare intorno ai giocatori e prima o poi per questo gli sarebbe arrivata, durante un allenamento si mette a trotterellare in mezzo al campo sotto gli occhi del tecnico Bruno Pesaola. «Mister, lo sa che sono estroso», gli dice. «No – gli risponde Pesaola altrettanto svelto di pensiero -, lei è un “estronso”». Al piacere della battuta non resisterà nemmeno da commentatore della nazionale, anche se è per quel carattere guascone, oltre che per la crescita di un regista dinamico come Giancarlo Antognoni, che giocherà solo sei partite in Nazionale.
A Bologna apre e chiude la carriera, completa 162 presenze (68 in A, 67 in B, 23 in Coppa Italia, 1 in Coppa delle Coppe, 3 in Mitropa Cup) in due tempi, e segna 7 gol (2 in A, 3 in B, 2 in Coppa Italia). Debutta in Serie A giovanissimo, a soli 18 anni a Torino contro la Juventus insieme a Franco Colomba, sacrificato su Marchetti e Cuccureddu. Pecci, già spavaldo e maturo anche quando viene marcato da Furino, causa il rigore del vantaggio bianconero e si procura il penalty del pareggio. Ma il rigore della storia è l’ultimo della finale di Coppa Italia 1974 contro il Palermo, allora in Serie B, che ha eliminato la Juventus.
Il Bologna arriva a giocarsi il titolo dopo aver battuto il Genoa, l’Avellino, il Milan, l’Inter e l’Atalanta. Un rigore molto contestato, assegnato da Sergio Gonella, che sarà l’arbitro della finale Mondiale 1978, permette ai rossoblù di pareggiare il vantaggio di Magistrelli. Pecci segna l’ultimo dei rigori rossoblù, poi la traversa frustra Favalli. Il Bologna vince la seconda Coppa Italia della sua storia. Nella stagione successiva, Pecci gioca 24 partite e attira l’attenzione del Torino. Il presidente Conti lo cede e si giustifica con i tifosi: «Il regista, dice, ha un mal di schiena cronico».
In granata non si accorgono del mal di schiena di Pecci e lui al primo anno vince uno scudetto memorabile, nella stagione 1975-‘76, con Gigi Radice in panchina. È il Toro di Orfeo Pianelli, un presidente affezionato ai suoi giocatori e agli operai della sua azienda, la Pianelli&Traversa che ottenne di montare i suoi sistemi di trasporto nello stabilimento Fiat di Togliattigrad, in Unione Sovietica. L’azienda è in crisi nell’estate del 1981. Pecci va a incontrare Pianelli e con l’occasione, da appassionato lettore di classici, va anche a portare un mazzo di fiori sulla tomba di Albert Camus a Lourmarin. Pianelli salva l’azienda e sacrifica Graziani e Pecci, li vende alla Fiorentina dei Pontello che sognano di contrastare lo strapotere della Juventus.
A Firenze resta fino al 1985, gioca 138 partite e segna 13 gol. Giostra a centrocampo con Casagrande prima e Oriali poi, illumina il gioco con Antognoni, ma passa per il più forte rivale in viola di Socrates. Con la Fiorentina, segna un gol splendido alla sua ex squadra, il Bologna, il 13 dicembre 1981; in tribuna muore Piero Pasini, l’inviato di 90° Minuto. A Bologna tornerà, dopo un anno a Napoli con Maradona, per gli ultimi giri di giostra. Mai banale, sempre laterale.