Prima del Re, c’è stato il Principe. E il Principe è stato l’idolo del Re, ancor prima di esserlo di tutta Roma. Del resto, solo nella Capitale possono sbocciare certe storie e solo certe storie possono fiorire nella Capitale. Quella di Giuseppe Giannini, romano e romanista dal 20 agosto del 1964 – data di nascita, ovviamente -, era un ragazzetto del quartiere Trieste; lo conoscevano tutti e tutti gli volevano bene. Anche perché suo padre, a metà degli anni Sessanta, aveva preso in gestione un bar nel quale confluiva buona parte del vicinato. Ai tre anni di Giuseppe, la famiglia si trasferisce a Frattocchie, venti chilometri dall’Urbe. Lì inizia a giocare a calcio, una nuova storia di oratorio sotto la supervisione di Don Dino. Che lo vede già fortissimo e lo propone a tutti quelli che conosce nell’ambiente: dal Santa Maria delle Mole andrà al Tomba di Nerone, dal Tomba di Nerone all’Almas Roma del Tuscolano.
A sedici anni, quando la qualità è così evidente da attirare l’attenzione pure della Lazio, le segnalazioni alla Roma (quella vera) si sprecano: così, nel 1980 arriva l’occasione di crescere in giallorosso. Un anno dopo, pure quella di esordire. Del resto – come ha scritto Cristiano Corbo – a quella qualità non si poteva sfuggire, né ignorare. Si poteva solo abbracciarla e farsi avvolgere: Roma stava per trovare un nuovo talento e tutti sapevano che sarebbe stato materiali da idoli, di quelli totali, nei quali la gente sa riconoscersi perché non è una storia arrivata da chilometri e nomi esotici. È invece un ragazzo della borgata, nato e cresciuto con il peso e onore di rappresentare questa città. Ne sente la responsabilità, ne comprende la missione. Falcão era l’ottavo re di Roma? Ad aiutare il mito è stato anche l’impatto in giallorosso: Giuseppe diventava sempre più l’alter ego di Falcão, di cui era figlioccio di campo. “Solo Rivera era più svelto di lui nell’imparare”, le parole di Liedholm. Che nel 1982, nell’esordio avvenuto in un match casalingo contro il Cesena, seppe essere pure parecchio duro con il ragazzo: dopo un malinteso con Falcão, arrivò infatti il contropiede degli emiliani, incredibilmente in grado di espugnare l’Olimpico. Fu subito rispedito tra gli Allievi, con i quali qualche giorno dopo giocò un derby sensazionale. Lo stesso Falcão chiamò l’allora presidente Dino Viola: “Non lo mandi in prestito”. E con Eriksson, partì una grandissima storia d’amore. Quella dei 10. Del regista prima avanzato e poi abbassato. Già nel 1984, a vent’anni, Giannini era titolare indiscusso della sua Roma: dovette aspettare il ritiro un altro idolo – in giallorosso è sempre un tramandare, vedi Principe e Totti – come Agostino Di Bartolomei. E come regalo di consacrazione, segnò un gol meraviglioso contro la Juve, dopo una rincorsa lunga 50 metri. Semplicemente impressionante. Il 1984 è anche l’anno in cui la transizione inizia e si completa. In cui cambiano le stimmate della sua carriera, in cui capisce che Roma può dargli assolutamente tutto ciò che vuole, non solo per calore e affetto, ma anche per il calcio che può esprimere. Giannini da ragazzo si fa Principe, con l’appellativo coniato per lui dal suo compagno di squadra Odoacre Chierico; ha la Dieci, il numero più importante; fa gol determinanti e presto gli danno la fascia da capitano.
Un monito chiarissimo, come un chip sotto pelle con una richiesta: non lasci più la città, la famiglia. Nel 1988, una delle migliori stagioni: totalizza 11 gol in campionato ed è al terzo posto della classifica marcatori. La Juve stravede per lui, e l’Avvocato Agnelli – per sempre con un debole per i giocatori di qualità – lo vorrebbe subito a Torino. Boniperti parte in missione e l’accordo con Viola, con un assegno bello pesante, viene trovato in poche ore. La palla passa a Giannini: alla Juve troverebbe una squadra da Coppa dei Campioni, ma Roma è Roma. Roma è la sua vita. E allora rifiuta, senza rimpianti o rimorsi. “Per me Boniperti offrì 21 miliardi di vecchie lire al presidente Dino Viola per portarmi alla Juventus. Tornassi indietro? Rifarei la stessa scelta d’amore verso la Roma”.
Non sempre Roma fu però riconoscente. Fu certamente orgogliosa, questo sì. Specialmente quando in Nazionale era il fulcro della squadra di Vicini: semifinalista all’Europeo dell’Ottantotto e poi ai Mondiali in casa del Novanta. In quegli anni vince però con i giallorossi: 3 Coppe Italia e quella maledetta finale di Coppa Uefa contro l’Inter di Trapattoni; poi la tripletta nella finale di Coppa Italia del 1993, che però non basta ad alzare il trofeo. Sembra il prosieguo di una carriera sfavillante. Nulla pare scalfire la sua scalata verso il primo posto della storia del club. Finché, di ragazzetto, ne arriva un altro. La stagione successiva è un disastro. Giannini segna un gran gol a Foggia – bellissimo: sinistro potente con palla sul palo e accartocciata in rete -, fondamentale per una stagione alla quale Mazzone non riusciva a mettere una pezza, nemmeno alle porte di aprile.
L’esultanza è rabbiosa, è il tentativo di sfogare un dolore quasi metafisico, unito all’orgoglio di chi troppo spesso dimenticava sacrifici, scelte, amore totale per una maglia e per un luogo sacro. Ma cos’era successo? Perché tanta pena per il Principe? Appena due settimane prima, la Lazio conduceva il derby per 1-0. Entra Totti ed è delirio: Negro, per fermarlo, può solo abbatterlo e pure ci casca. Giannini ha tra i piedi un pallone pesantissimo: Marchegiani è formidabile, ma l’errore è tutto di Beppe. Che a fine partita, frastornato, va in sala stampa e prova a difendersi: “Ero il rigorista e sono andato sul pallone. Nessuna responsabilità ai miei compagni o all’allenatore”. La curva capisce, lo striscione lo rincuora: “Il tuo coraggio di tirarlo, il tuo dolore di sbagliarlo, il nostro amore per dimenticarlo”. E la rabbia? Arrivava dalle parole di Sensi, pronto a preparare il passaggio di testimone con il giovanissimo Francesco Totti.
“Se uno ha un rigore e lo sbaglia, non è degno di stare in questa squadra”, dirà il patron a caldo. Una frase che segnò la frattura con la società, mai rimarginata.Da quel momento, Giannini inizia a giocare meno, a collezionare panchine e a trovare luce solo in Europa. Celebre, la sfida ai quarti di finale con lo Slavia Praga: Giuseppe è indemoniato e aiuta la squadra prima a pareggiare la disastrosa prova dell’andata, poi a trovare il 3-0 con Moriero.
Vavra rovina tutto, il Dieci è deluso e decide di andare. “L’ambiente è troppo cambiato”, la decisione è definitiva e lo vedrà trovare subito un accordo con gli austriaci del Graz (poi al Napoli, ma solo per Mazzone). Prima di salutare, Giannini ha un ultimo desiderio giallorosso: chiudere all’Olimpico, magari con una vittoria, con i suoi tifosi per l’ultimo applauso. La sorte è naturalmente beffarda: a Firenze, dopo una prestazione pazzesca, prende un giallo evitabile da diffidato. Era l’ultima e la realizza così, con la disperazione di un sogno infranto.