Numero 8 dietro la schiena, cuore e grinta da vendere, fanno di Giorgio Ferrini uno dei simboli indiscussi del Toro. Un calciatore che sembrava progettato appositamente per incarnare in ogni sua sfaccettatura “l’essere granata“, un uomo taciturno ed introverso che quando entrava in campo vestendo quella maglia, che per lui era diventata come una seconda pelle, si trasformava grazie alla sua proverbiale grinta e alla volontà di lottare fino all’ultima goccia di sudore. Un condottiero – come sottolinea Omar Cecchelani- sempre l’ultimo a mollare, e anche quando la squadra sembrava andare in crisi sotto gli attacchi degli avversari, trascinava i compagni alla riscossa, togliendo spesso le castagne dal fuoco alla causa granata.
Nato a Trieste il 18 agosto del 1939, è tutt’ora il recordman di presenze in maglia granata con 566 partite giocate dal 1959 al 1975, quando appese le scarpe al chiodo per dedicarsi alla carriera da allenatore, che purtroppo durò soltanto un anno a causa della solita “maledizione granata“, che attraverso un male improvviso, se lo portò via non ancora quarantenne, l’8 novembre del 1976, proprio pochi mesi dopo lo scudetto vinto dal Toro di Pulici e Graziani, in cui Ferrini era il secondo di Radice.
La sfortuna che oltre a portarlo via prematuramente, gli negò anche la soddisfazione di vincere da giocatore, un tricolore che avrebbe sicuramente meritato per essere stato protagonista nel Toro di Giagnoni, precursore della squadra che con Radice riuscì a vincere lo scudetto proprio pochi mesi prima della sua scomparsa.
La sua carriera in granata iniziò in quel di San Benedetto del Tronto il 20 settembre del 1959, giorno della prima gara in assoluto del Torino in serie B, con il numero 11 sulle spalle, che portò solamente in quell’occasione, infatti dalla partita successiva indosserà la maglia numero 8 che lo accompagnerà per tutto il resto della sua carriera.
Da quel 20 settembre Giorgio Ferrini ha legato la sua vita al Torino, in modo indissolubile, giocando ogni domenica, restando al Toro ogni estate, vedendo passare campioni e giocatori mediocri, allenatori e dirigenti, che ogni anno andavano e venivano dal calciomercato, mentre Ferrini era l’unica certezza che il Toro aveva in quegli anni, il giocatore attorno alla quale costruire la squadra, il capitano, l’unico vero e degno di quel titolo dopo il grande Valentino Mazzola.
Un’altro mito del Toro di quegli anni diceva di lui: “Da giovanissimo, nelle mie prime partitelle d’allenamento con la prima squadra venivo sempre marcato da Giorgio Ferrini che, per obbligarmi a tenere i gomiti alti, mi riempiva di pugni ai fianchi. Un giorno non ce la feci più e con un gomito troppo alto colpii Giorgio al naso facendolo sanguinare. Lui allora mi disse. “Adesso sì che sei del Toro”. Era Paolo Pulici che ebbe la fortuna di avere Ferrini come maestro e guida.
Così come indimenticabile, a dimostrazione della sua grinta e del suo carattere è l’immagine di Ferrini che rincorre Sivori per prenderlo a calci nel sedere, ringhiando come faceva quando recuperava un pallone dai piedi degli avversari, o contrastava gli attaccanti con la grinta e la cattiveria sportiva che certo non mancava a un giocatore che sicuramente non verrà ricordato per i suoi goal spettacolari, o per le sue prodezze tecniche, ma perchè non si arrendeva mai e non aveva paura di nessun avversario, un cuore Toro, che continua a battere anche dopo l’8 novembre del 1976.