Un innamorato del calcio, uno che se l’è sudata e se l’è guadagnata la pagnotta. Sin dal primo giorno: «Ho sempre fatto gavetta. È la passione per il calcio che mi porta a farla. È il destino di un figlio di emigrati in Francia cresciuto nella periferia di Verona» racconta Alessandro Renica (59 anni). Lunghe leve da fenicottero, riccioli e naso aquilino a pronunciare la faccia da bravo ragazzo. Per sei anni, libero del Napoli più forte di sempre, due scudetti e una Coppa Uefa attorno al mito del Diez: «Ho avuto la fortuna di vivere in una città meravigliosa un periodo d’oro a fianco del calciatore più forte di tutti i tempi. Il massimo». Lo scorso novembre lo ha intervistato Lorenzo Fabiano sul “Corriere del Veneto”.
– Renica, chi era Diego Armando Maradona?
«Un ragazzo di un’umanità straordinaria, che sapeva entrare nel cuore di tutti, tranne di quelli che si comportavano male con lui e la squadra. Una persona unica, pulita e onesta. Un amico. Ti chiedi se potevi fare qualcosa di più per aiutarlo, ma non è facile entrare in quei meccanismi che lo hanno portato all’autodistruzione. È una storia molto triste. Chi non lo ha conosciuto dovrebbe però avere almeno il buongusto di esimersi dal dare giudizi e metterne in luce gli aspetti negativi solo per guadagnarsi una fetta di visibilità. Una brutta abitudine italiana. Ci vuole più rispetto».
Alessandro Renica, il ragazzo nato in Francia e cresciuto alle Golosine, periferia di Verona. Pare un romanzo.
«Mio padre di Isola della Scala era emigrato per motivi di lavoro nel nord della Francia dove conobbe mia madre, abruzzese. Sono nato lì, e a tre anni tornammo a Verona, alle Golosine dove i miei genitori aprirono un bar. Era in quegli anni un quartiere difficile. Tanti ce l’hanno fatta, ma tanti altri amici li ho visti perdersi nella trappola della droga, allora un flagello a Verona, tanto che la chiamavano la Bangkok d’Italia: io nel calcio e mio fratello Loris nel rugby, grazie allo sport ci siamo tenuti lontani da quei pericoli. Giocavo nella squadra del quartiere ed eravamo fortissimi. Infilavamo vittorie su vittorie».
Vicenza e quindi la chiamata a Genova da Paolo Mantovani.
«La Sampdoria era neopromossa in serie A e coltivava ambizioni. Nel 1982 fui il primo acquisto dell’era Mantovani nella stessa estate in cui arrivò Roberto Mancini; due anni dopo arrivò anche Gianluca Vialli. Per noi giovani, Mantovani era come un padre, ti faceva star bene ed era sempre protettivo. Un vero gentiluomo».
– Si aspettava che Mancini sarebbe diventato un giorno un allenatore a questi livelli?
«Era già un allenatore in campo; lui dirigeva il reparto alto, io il basso. Roberto ha sempre bruciato le tappe, prima da giocatore e poi da allenatore. È stato bravissimo a imporsi subito; è un vincente a 360°, entra nella testa dei giocatori. Chi meglio di lui può ricoprire quel ruolo?».
– Come avvenne il suo passaggio a Napoli?
«Il libero era Luca Pellegrini. Così Bersellini mi faceva fare il terzino sinistro, che non era il mio ruolo. Fu motivo di rottura. A Napoli mi portò nel 1985 Italo Allodi, l’architetto di una squadra perfetta, costruita con i giusti criteri. Un puzzle completato. Senza di lui e Maradona, lo scudetto a Napoli non sarebbe arrivato. Un gran signore che è nel mio cuore».
– Di Ottavio Bianchi cosa ci dice?
«Una persona seria e un allenatore bravo e preparato, capace di saper gestire i momenti di esaltazione e depressione che si vivevano in città. Fondamentale in una piazza come Napoli».
– E di Corrado Ferlaino?
«Si vedeva poco, stava in disparte. Ci avrò parlato sì e no tre volte. Insieme a Antonio Juliano e Dino Celentano ha il grande merito di aver portato Maradona a Napoli e di aver fatto sognare una città. Un imprenditore coraggioso».
– L’azione partiva dai suoi piedi; un libero moderno si direbbe oggi, no?
«Ero il regista difensivo e di solito verticalizzavo subito perché là davanti avevamo tre mostri: Maradona, Giordano e Carnevale. Poi Careca al posto di Giordano. Ho fatto qualche gol pesante; oltre ai due scudetti, abbiamo vinto la Coppa Uefa, allora una seconda Coppa dei Campioni. Eliminammo Juve e Bayern prima di battere in finale lo Stoccarda».
– Tornò quindi a casa con la maglia del Verona, la squadra della sua città. Non andò benissimo…
«Ero reduce da un infortunio, ma mi barcamenavo grazie all’esperienza. Eravamo una buona squadra, nel girone d’andata stazionavamo a ridosso della zona Uefa, ma il problema era il gol: davanti, Raducioiu creava tantissimo ma non la buttava dentro. Stojkovic era un fuoriclasse, e una gran bella persona; purtroppo fu limitato da un problema al ginocchio. Per quanto mi riguarda, nel girone d’andata giocai parecchio, poi mi fu preferito Luca Pellegrini (come a Genova, NdR) e finii ai margini col morale a terra. Retrocedemmo e fu una brutta annata. Non me lo aspettavo. Mi dispiacque per la famiglia Mazzi che avrebbe meritato una sorte diversa per quanto aveva investito».
– Oggi che fa Alessandro Renica?
«Amo il calcio e sono rimasto nell’ambiente, sebbene in vesti diverse. Da due anni sono socio di un procuratore; cerchiamo giovani talenti e ne abbiamo già parecchi in scuderia. In estate collaboro con una scuola calcio a Feltre (Belluno), dove spiego ai ragazzi come si marca e come ci si smarca. Un lavoro di tattica applicata e tecnica. Poi c’è la televisione…».
– Opinionista?
«Esatto. Una trasmissione al lunedì sera, “Il Bello del Calcio” su un’emittente di Napoli, Canale 8. Conduce Massimo Caputi con Claudia Mercurio. In studio io, “Spillo” Altobelli, Roberto Rambaudi, Maurizio Pistocchi, Mario Soncerti e Adriano Bacconi, l’analista tattico alla lavagna, animiamo il dibattito. Ognuno dice la sua e mi diverto tantissimo».