Una vita spesa sui campi di calcio, da quasi trent’anni in panchina ed una carriera di tutto rispetto che gli ha permesso di scrivere la storia in riva allo Stretto e non solo. Bortolo Mutti, classe 1954, nativo di Trescore Balneario, ha guidato il Messina tra il 2003 ed il 2006, subentrando in Serie B al timone di una squadra all’ultimo posto in classifica e trascinandola in massima serie dopo un terzo posto alle spalle di Palermo e Cagliari.
Uno storico settimo posto in Serie A l’anno successivo ha permesso al tecnico bergamasco di entrare di diritto nella storia del club giallorosso, – come raccontato “Messina nel pallone” – nel facendo sognare un’intera città: “A Messina mi legano i ricordi più belli della mia carriera, parliamo ormai di altri tempi, ma ricordo ogni dettaglio come fosse ieri. Siamo riusciti ad incastrare ogni tassello di un mosaico perfetto, non avevamo paura di nessuno, allenarci era una gioia, la domenica volevamo imporci contro chiunque e la mentalità vincente era nel nostro Dna”. Sicuramente ben altri tempi, guardando il presente del calcio biancoscudato: “Seguo a distanza e con grande rammarico le vicende del calcio peloritano, sono legatissimo alla città, ma anche all’intera Sicilia. Siamo stati gli ultimi a giocare al Giovanni Celeste, ma al tempo stesso i primi a scendere in campo al San Filippo e vedere lo stadio sempre pieno era un’emozione incredibile ed indescrivibile. I risultati sono stati il frutto del grande lavoro svolto, ho costruito una squadra a mia immagine e somiglianza, con una mentalità battagliera e mai arrendevole. Ho avuto il piacere di allenare ragazzi che si son messi a disposizione e che attraverso il sacrificio son cresciuti in maniera esponenziale. Penso a Rezaei, Zoro, Lavecchia, Coppola, Mamede, Sullo e Giampà, persone straordinarie, oppure alla tenacia di Zaniolo, un trascinatore ed un leader, un guerriero nato che in campo dava sempre l’anima e che tutti gli allenatori vorrebbero avere in organico. Il mio auspicio è quello di rivedere al più presto il Messina in categorie più consone e con quarantamila tifosi sugli spalti ad incitare la squadra”.
Mutti fa parte di un calcio d’altri tempi, sempre più difficile da ritrovare, in un mondo dove ben altri valori caratterizzavano lo sport: “La meritocrazia non esiste più, il calcio purtroppo sta diventando una giungla ed è sempre più difficile lavorare. Gli allenatori vivono una situazione di precarietà incredibile, tanti tecnici si vendono per nulla o portano sponsor per allenare ed il trainer sempre più raramente viene messo al centro di un progetto. Io sono abituato ad un altro tipo di calcio e non mi riconosco in certe situazioni. L’allenatore dovrebbe essere affiancato da un buon direttore sportivo che collabori con lui e metta le proprie competenze al servizio della società, che a sua volta deve dimostrarsi forte, solida, competente e coerente nelle scelte. Oggi vedo troppa gente impreparata nel mondo del calcio, dove presidenti e dirigenti spesso prendono il sopravvento sul tecnico che purtroppo sempre più raramente è il leader e troppo spesso diventa gregario o comprimario. Vedo in giro una grande carenza di progettazione, quando invece bisognerebbe seguire l’esempio di società lungimiranti come Atalanta e Udinese”.
L’ultima esperienza di Mutti risale al 2015, sulla panchina del Livorno, quando il tecnico bergamasco subentrò all’esonerato Christian Panucci: “Una scelta dettata dalla voglia di lavorare e di rimettermi subito in gioco. Oggi posso dire di essermi pentito di aver accettato con troppa fretta la panchina del Livorno, un contesto molto difficile da gestire in quel momento. Subentrare a campionato in corso non è mai facile, spesso trovi situazioni incancrenite anche tra i calciatori all’interno dello spogliatoio, società che non danno al tecnico il tempo di lavorare o piazze che non hanno la pazienza di attendere. Ci si ritrova spesso in situazioni senza via d’uscita, ma anche questo fa parte del mondo del calcio e soprattutto è un rischio che un allenatore deve correre. Il nostro è un ruolo molto particolare, in cui si è soli e soprattutto si è sempre i primi a finire sul banco degli imputati. Ma ormai ci siam fatti le ossa”. Mutti, da calciatore, ha vestito con ottimi risultati le maglie di Massese, Pescara, Catania, Brescia, Taranto, Atalanta, Mantova e Palazzolo, togliendosi innumerevoli soddisfazioni dopo aver fatto tutta la trafila nel settore giovanile dell’Inter.
Ben oltre 100 reti tra Serie A, Serie B e Serie C, una promozione in massima serie conquistata con il Brescia ed una straordinaria cavalcata con l’Atalanta in tre anni dalla Serie C1 alla Serie A da protagonista assoluto, prima di chiudere la carriera con il Palazzolo con il doppio ruolo di allenatore-giocatore: “Un tempo non avevamo facebook, instagram o twitter, non c’era whatsapp, i social network non esistevano, i valori in gioco erano ben altri e noi calciatori avevamo anche meno distrazioni. Non avevamo i procuratori, il rispetto e la lealtà erano alla base di ogni cosa e ci guardavamo negli occhi per dirci tutto, sempre. Era la cosa più bella e sincera. Da calciatore ho sempre cercato di essere un allenatore in campo, tanto che il mister Gigi Simoni una volta mi disse scherzando che presto avrei preso il suo posto. Son cresciuto seguendo il suo esempio, assieme ad Ottavio Bianchi e Nedo Sonetti, tre pietre miliari del nostro calcio che mi hanno insegnato le basi e trasmesso anche i veri valori dello sport. Non smetterò mai di ringraziarli”. Tra le sue storiche “vittime” il Milan, che a Mutti regalò più di una gioia: “Era il 22 settembre del 2004, Davide sconfisse Golia, il tabellone luminoso sentenziava la sconfitta del Milan di Carlo Ancelotti contro il mio Messina con il punteggio di 1-2 grazie alle reti di Giampà e Zampagna, ero incredulo. È stato bellissimo”.
La matricola che sconfisse i campioni d’Italia in carica, un capolavoro tattico di Mutti, ma non fu certo l’unico: “Alla guida del Piacenza, nella stagione 1996-‘97, ci salvammo battendo il Cagliari allo spareggio sul neutro di Napoli e ci togliemmo la soddisfazione di superare in casa il Milan con le reti di Eusebio Di Francesco e Pasquale Luiso che realizzò il gol del 3-2 con una bellissima rovesciata. La sconfitta del Milan provocò poi l’esonero di Oscar Tabarez, con il ritorno di Arrigo Sacchi in panchina. Anche con la maglia del Taranto, da calciatore, realizzai una doppietta contro il Milan in un match vinto con il risultato di 3-0, ma i miei 7 gol stagionali purtroppo non bastarono per raggiungere la salvezza”. Sette esoneri in trent’anni, ma soprattutto quattro promozioni, numerose salvezze ottenute sempre con il coltello tra i denti, tanti giovani valorizzati e lanciati, gioie e dolori, un curriculum di tutto rispetto ed una gavetta che ormai per tanti allenatori purtroppo non esiste più: “Diciamo che l’esempio di Pep Guardiola con il suo Barcellona ha fatto un po’ saltare i piani, dando a tante società l’illusione di avere in casa il nuovo astro nascente, ma non è sempre così. La gavetta non è importante, ma fondamentale”. Altri bellissimi ricordi: “Ho avuto il piacere e la fortuna di allenare tanti campioni e di lanciare parecchi giovani, difficile sceglierne uno perché sono legato veramente a tanti ricordi. Mi viene in mente Pippo Inzaghi che ho plasmato a Leffe e che successivamente portai al Verona. Era un purosangue impazzito, aveva una grandissima voglia di emergere ed un entusiasmo fuori dal comune. Sono riuscito ad inquadrarlo, aveva appena 18 anni e realizzò 13 reti in Serie C1, così decisi di portarlo con me a Verona, in Serie B, dove realizzò 14 gol e spiccò il volo. Pippo mi ringrazia tutt’ora e sono felicissimo di averlo allenato. In quel Verona militavano anche due giovanissimi come Gianluca Pessotto e Damiano Tommasi che hanno poi disputato una carriera importante, così come Eusebio Di Francesco che ho allenato a Piacenza. Mi son tolto grandi soddisfazioni anche con Riccardo Zampagna che allenai a Cosenza e successivamente al Messina, veniva dal dilettantismo e fu necessario trasmettergli una mentalità basata sul sacrificio e sulla cultura del lavoro. Ma penso anche a Marco Storari, inizialmente troppo funambolico, ma che ha fatto una grandissima carriera crescendo ed impegnandosi tanto giorno dopo giorno e vestendo poi le maglie di Juventus e Milan. Questi atleti sono la dimostrazione vivente che nella vita volere è potere e che il lavoro paga sempre”.
Palazzolo, Leffe, Verona, Cosenza, Piacenza, Napoli, Atalanta, Palermo, Reggina, Messina, Modena, Salernitana, Bari, Padova e Livorno.
Queste le squadre guidate da Mutti in carriera: “A Messina gli anni più belli, allenare il Napoli è stato un motivo di orgoglio, ma in generale sono contento di aver lavorato al Sud per tanti anni, perché ho trovato gente fantastica e sono sempre stato benissimo. Ho costruito ovunque tante amicizie, soprattutto in Sicilia, e la cosa più bella, al di là del risultato prettamente sportivo, è aver lasciato sempre un bel ricordo a livello umano. Ho seminato bene e raccolto i risultati del mio lavoro, ho dato tutto, ma al tempo stesso ho ricevuto tanto e ci ho sempre messo la faccia in maniera onesta, leale e sincera”.
A 70 anni, Mutti ha ancora l’entusiasmo di sempre e non vedrebbe l’ora di tornare in panchina: “Ho studiato l’inglese, è importante e mi piacerebbe allenare all’esterno, anche se sogno di guidare una Nazionale come commissario tecnico. Non è mai troppo tardi per imparare o per smettere di sognare. Non ho alcun rammarico, a volte mi hanno rimproverato di essere una persona poco istituzionale, ma io preferisco dire di essere una persona semplicemente libera”.