Il 30 luglio 1966 è una data iconica per l’Inghilterra. Quel giorno Bobby Moore, capitano dei Leoni, riceve dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet dopo la vittoria in finale contro la Germania per 4 a 2. Ed è l’unica volta che l’Inghilterra vince un trofeo di calcio. Una sorta di maledizione che è continuata, anche quando Harry Kane e compagni avevano l’occasione di sfatare con la finale di Euro 2020 contro l’Italia. Il Financial Times ha pubblicato un lunghissimo articolo a firma dello scrittore ugandese naturalizzato britannico Simon Kuper in cui si riflette sul parallelo tra il declino economico del Regno Unito e quello calcistico del Paese che si vanta di aver inventato il calcio e che sostiene, nel suo inno più celebrato, che quando i Tre Leoni vinceranno qualcosa il football sarà tornato a casa.
Il pezzo si apre con la celebrazione del giorno di quella finale. Le bandiere delle Union Jack che sventolano allo stadio, il vestito giallo della regina, il sorriso appena accennato di Moore mentre riceve la coppa che sarà poi definitivamente conquistata dal Brasile quattro anni dopo in Messico ai danni dell’Italia. Fino ad arrivare alla domanda intorno a cui gira tutto l’articolo: perché l’Inghilterra non vince più? Già nel 1966 si apre il dibattito sul declino di una nazione che sente di perdere il suo status di superpotenza. E, ironia della sorte, lo stava perdendo a vantaggio di quella nazione che aveva sconfitto non solo nelle due precedenti guerre mondiali, ma che aveva battuto anche in quella finale del 1966. «Two world wars and one world cup, doodah», cantano ironicamente i tifosi inglesi mentre vedono la loro nazionale farsi sbattere fuori proprio dalla Germania ai Mondiali del 1970 e nel 1990 e agli Europei del 1996. Proprio nel 1990 Gary Lineker, vincitore della classifica dei cannonieri nel 1986 in Messico, conia la sua proverbiale frase: «Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti e alla fine vince la Germania».
Insieme alle sconfitte divampa il dibattito su come debba giocare la Nazionale inglese e cosa le manchi per aspirare alle vittorie. La maggior parte degli individui di sesso maschile britannici nati tra il 1900 e il 1950 cresce vivendo una tradizione marziale e venerando i soldati più che i calciatori. Per questo ci si aspetta che l’Inghilterra giochi un “warrior football“, costruito intorno all’obbedienza nei confronti del condottiero, su contrasti maschi e coraggiosi colpi di testa. L’archetipo del comandante-condottiero è quel Bobby Robson nato nel 1933 e coach dell’Inghilterra dal 1982 al 1990. Di lui si ricorda la sua passione per la prima e la seconda guerra mondiale e gli elogi a Bryan Robson – che, secondo lui, non avrebbe sfigurato nelle trincee della Grande Guerra – e quelli al suo capitano Terry Butcher per essere tornato in campo durante una partita di qualificazione per i Mondiali del 1990 contro la Svezia nonostante una ferita alla testa che lo faceva abbondantemente sanguinare: «Guardate il vostro capitano, nessuno di voi può deluderlo», dice Robson alla squadra durante l’intervallo della battaglia. Gli allenatori inglesi preferiscono da sempre i guerrieri agli artisti del calcio.
Ma nel frattempo il calcio cambia. Le altre squadre europee si evolvono e sviluppano uno stile di gioco fatto di passaggi veloci, circolazione della palla e tecnica. L’Inghiterra rimane per troppi anni uguale a se stessa. Fedele al Bloody football, agli eroici tackle con cui i difensori affossano gli attaccanti, a quel gioco “maschio” che intanto i regolamenti cercano di reprimere per favorire lo spettacolo. Ovvero proprio la filosofia di quel Graham Taylor che è sulla panchina dell’Inghilterra quando i Leoni subiscono una delle loro sconfitte più brucianti durante le qualificazioni (quella contro la Norvegia) che alla fine costa ai Leoni la mancata partecipazione ai Mondiali del 1994 (in compagnia della Francia). Il fallimento di Taylor, immortalato nel documentario «An impossibile Job», ha almeno il lato positivo di cancellare per sempre la presunta eccezionalità inglese nella scelta delle tattiche calcistiche. Il suo successore, Terry Venables, che poi sarà anche allenatore del Barcellona, cambia verso alla Nazionale imponendo le tattiche moderne ma anche il miglioramento della forma fisica. Da allora non vengono più visti di buon occhio i calciatori che dopo la partita vanno a bere al pub. Venables guida i Leoni nell’Europeo del 1996 giocato in casa e famoso per due motivi. Il primo è che l’Inghilterra viene ancora una volta eliminata (stavolta ai rigori) dalla Germania. Il secondo è che a sbagliare il penalty decisivo è un certo Gareth Southgate. Ovvero l’attuale ct dell’Inghilterra.
Kuper dà poi spazio a un suo aneddoto personale. Nel 1996, mentre visita il campo d’allenamento dell’Aston Villa, conosce per la prima volta proprio Southgate. L’allenatore della squadra di Birmingham, Paul Barron, è un fanatico della forma fisica e decide di misurare a entrambi la percentuale di grasso corporeo. Quella di Kuper è del 16%, quella di Southgate del 9%. Proprio quell’anno i tifosi inglesi cominciano a cantare un coro che successivamente diventerà «Three Lions (Football’s coming home)»:
Thirty years of hurt
Never stopped me dreaming
Football’s coming home
It’s coming home!
Una canzone a suo modo profetica perché unisce due convinzioni contraddittorie insite nei fans della Nazionale: che l’Inghilterra perde sempre e che prima o poi è destinata a tornare a trionfare. Dopo Venables è la volta di Glenn Hoddle e poi comincia l’era degli allenatori “continentali” come Sven Goran Eriksson e Fabio Capello. E poi tocca a Roy Hodgson, inglese sì ma europeo nella sua cultura calcistica. Tutti promettono vittorie, nessuno di questi riesce a riportare a casa il trofeo. Anzi, per Hodgson c’è anche l’umiliazione dell’eliminazione con la piccola Islanda, arrivata nel 2016, quando anche il Regno Unito decide di abbandonare l’Unione Europea.
Quell’eliminazione offre alla Federazione inglese l’opportunità di ritornare alle origini, offrendo la panchina a un inglese purosangue come Sam Allardyce. E porta anche i fan a trovare un comodo capro espiatorio nei calciatori «strapagati e sovrastimati», al pari della loro classe dirigente «indegna e incapace» di perseguire l’interesse nazionale. Intanto Allardyce riesce a essere l’allenatore dell’Inghilterra per una sola partita. Viene filmato di nascosto mentre spiega a due giornalisti in incognito come aggirare, dietro il pagamento di 400 mila sterline, le norme imposte dalla Football Association per regolare la proprietà dei cartellini. Al suo posto la Federazione chiama un allenatore dallo scarso curriculum ma dalle idee chiarissime. Ovvero proprio Southgate. E lui esegue una Brexit al contrario, costruendo una squadra capace di giocare un calcio moderno ed europeo. È un modernizzatore, tanto che in molti lo paragonano ad Alf Ramsey, ovvero proprio l’allenatore in panchina nel 1966 quando l’Inghilterra vince il suo unico e ultimo trofeo. E il suo “internazionalismo” riceve il sostegno dei tifosi e dei media. Anche perché è stato aiutato da un campionato nazionale che nel frattempo, grazie anche ai tanti soldi in arrivo dalle televisioni, ha importato calciatori da tutti i paesi.
E competere contro i migliori giocatori stranieri sul mercato non può che migliorare i calciatori inglesi. Dal 1995, la data della sentenza Bosman che rivoluziona il calciomercato e permette ai calciatori europei di giocare ovunque nel Vecchio continente, la Nazionale inglese continua a migliorare nei risultati. «Grazie all’immigrazione straniera», dice ironicamente Kuper. Almeno nel calcio la narrativa declinista è falsa. Southgate ci mette del suo anche in questo. Appoggia apertamente il taking the knee dei calciatori inglesi per Black Lives Matter in più occasioni. E non può fare altrimenti visto che il suo è uno dei team più multetnici della storia dei Leoni. Alcuni fan fischiano i giocatori quando si inginocchiano prima della semifinale contro la Danimarca, ma la maggior parte li applaude. E loro, tra conservatori e liberali, decidono senza tentennamenti da quale parte stare. Ma alla fine non sono riusciti a sfatare lo stereotipo più importante. Quello che vede l’Inghilterra perdere sempre. Is really football coming home?
Fonte: “Open.online”