Ognuno di noi conserva un ricordo personale, quasi intimo, dei Mondiali dell’82. Senza scomodare la sociologia, quelle partite e quella vittoria rappresentarono per l’Italia una sorta di intervallo festante e felice, in un periodo che arrivava da eventi tragici e, per molti aspetti, indecifrabili, dal momento che il terrorismo brigatista, le stragi e gli attentati, il terremoto in Irpinia avevano fatto calare sul paese un’ombra di inquietudine e pessimismo che sembrava doverlo portare in una dimensione di resa.
E il calcio stesso, con l’indagine che aveva coinvolto atleti, dirigenti nel torbido giro delle scommesse e delle partite truccate, pareva aver perso irrimediabilmente la propria credibilità. Ci pensò dunque la Nazionale di Bearzot a ridare energia e ottimismo a quell’Italia desiderosa di riscatto. Lo fece, come sovente capita, utilizzando doti e qualità sconosciute a tutti, giornalisti in primis, smentendo le analisi e le previsioni della vigilia, giocando 4 partite (contro Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest) al limite della perfezione, dopo un avvio di torneo balbettante, utile solo a scatenare polemiche e dietrologie trasversali, dai media, ai tifosi fino allo stesso palazzo del calcio, pilatescamente pronto a scaricare Bearzot e la sua truppa.
Per noi del ‘57 (Cabrini, Collovati…e io) quei Mondiali rappresentavano un bivio: giovanotti che avevano ancora voglia di stupire e stupirsi, pur sapendo che la vita avrebbe loro chiesto presto cosa fare da grandi. E tutto andò in crescendo, in campo e fuori, tra la determinazione di quel gruppo, in cui ci si faceva crescere i baffi (Oriali e Gentile) per spaventare gli avversari e l’adrenalina e la strizza di noi tifosi, terrorizzati da certe partite dal pronostico alla vigilia già irrimediabilmente segnato.
Quei Mondiali li seguii in una villetta nel centro di Spinetta Marengo, teatro di molte “imprese” indimenticabili e irriferibili della mia gioventù. La gradinata era uno di quei tinelli anni ’80, col tavolo al centro e i divani tutti attorno. Riti e cabale che, nell’evolversi della competizione, erano ormai usanze immodificabili, almeno per me, come i jeans portati l’anno prima a Carrara, nel big match con la squadra di Orrico, 4 sigarette, di cui 3 da fumare nel primo tempo, una all’avvio della ripresa e le altre scroccate sempre allo stesso amico rassegnato ma rispettoso della scaramanzia. Posti assegnati e rispettati e guai a spostarsi di lì e numero chiuso degli invitati perchè “tizio non bisogna invitarlo perchè porta sfiga”.
Una dimensione tra l’appassionato e il goliardico che rappresentava una novità assoluta nei nostri comportamenti di gente legata comunque al calcio da un’adesione viscerale, cresciuta tra figurine Panini e partite in ogni angolo del paese…e se c’era l’erba, tanto di guadagnato. Di quelle quattro partite – ma sulla finale c’è un discorso a parte da fare – il ricordo indelebile è l’ansia e il caldo di quei pomeriggi a cavallo tra giugno e luglio, match contro avversari dotatissimi e agguerriti, dal momento che, dopo la prima fase, il sorteggio ci aveva riservato Argentina e Brasile e noi con gli occhi sbarrati, in apprensione per un corner o una palla persa o un dribbling vincente di Maradona o Falcão. Su come giocassero i nostri non c’era necessità di approfondirlo; fino alla gara coi Brasiliani, pensavamo che Paolo Rossi fosse una scelta discutibile e pure Graziani non ci faceva impazzire.
Eppure quella squadra aveva un’anima; l’aveva trovata proprio lì ai Mondiali, la perse subito dopo, naufragando all’Europeo dell’84, in Francia ma in quelle 4 partite si rivelò imbattibile. Asfissianti marcature a uomo ma tanta qualità in Scirea, primo regista della squadra: e poi terzini come Gentile e Cabrini, tanto efficaci in marcatura quanto bravi a crossare, un centrocampo con due cursori di qualità come Oriali e Tardelli, una mezzala completa con tiro, dribbling e lancio come Antognoni e un regista che giocava a tutto campo come Conti, imprescindibile nell’avvio della manovra.
Tutto questo bastò fino alla semifinale con la Polonia che ci portò alla finalissima contro i tedeschi, mentre le sere italiane conoscevano l’onda crescente dei caroselli automobilistici, imbandierati di tricolore. La casa e la cabala funzionavano dunque ma il colpo di scena era in agguato. Alcuni di noi, e tra questi il proprietario della villetta col tinello anni ’80, avevano trovato modo di andare direttamente a Madrid a vedersi la finale. Sgomento e panico lasciarono spazio quasi subito alla rassegnazione. Il calcio è così perchè nel calcio i segnali del destino si ritiene siano sempre inesorabili e determinanti ma, subito, partì la caccia a una soluzione alternativa, posto che ai nostri amici non potevamo certo chiedere di rinunciare a quella trasferta.
Ci venne incontro un giovane amico, di recente acquisito al nostro giro. Casetta sulla strada per Frugarolo, abitata con papà, mamma e i tre fratelli. Quell’11 luglio 1982 la raggiungemmo da diverse direzioni, ma perlopiù dai lidi ovadesi dove passavamo le nostre domeniche. Nella nuova location era impossibile ricreare riti e comportamenti precedenti. Si improvvisò qualcosa, timorosi che queste novità potessero turbare le cabale consolidate. Eravamo trenta in un salottino col solito tavolo a centro, sotto il quale era stato sistemato, in ginocchio, il più piccolo della famiglia, Gianfranco, il quale faceva percepire la propria presenza con poderose testate, quando, in uno slancio di entusiasmo, si alzava all’improvviso.
Finestra aperta, volume agghiacciante, inni e via. Al rigore sbagliato da Cabrini, la disperazione prendeva tutti e qualcuno non si tratteneva “Lo sapevo: non li dovevamo lasciare andare a Madrid”. Poi Paolo Rossi, Tardelli e Altobelli sistemavano la pratica, come confermato dalle craniate del nostro amichetto, nelle sue manifestazioni di incontenibile ma doloroso giubilo. Ma partite come quelle, lo dice la storia, non potevano essere considerate mai vinte, se non al 90’ e Breitner ci teneva in allarme fino all’ultimo. Poi Coelho, l’arbitro, sfilava la palla a Causio, entrato per nascondere la sfera, e Martellini gridava tre volte campioni del mondo.
Di lì a qualche minuto eravamo in Alessandria: tripudio, ogni genere di mezzo e persona in strada e marciapiedi, un vecchio militante del PCI che con ardita metafora mi diceva “Vedi che bello quando il popolo scende in piazza?!” Tutto era consentito, cose mai viste, uno spettacolo indimenticabile.
La Spagna sarebbe diventata presto meta delle nostre vacanze; un paese libero che altro non aspettava che gente desiderosa di continuare la festa. I primi di agosto alcuni di noi, nel fare rifornimento alla periferia di Almunecar si imbattevano in una Peugeot bianca, popolata da quattro francesi di colore che alla loro vista esplodevano in un fragoroso “Les italiens…!!!”. Eravamo davvero campioni del mondo.
Gigi Poggio