Questa è la storia della profezia di un giornalista che, contro il pensiero di tutta la sua categoria, pronosticava la nazionale italiana campione del mondo nel 1982. Siamo nel pieno dei difficili giorni di Vigo, quando gli azzurri di Bearzot affrontano balbettanti il girone di qualificazione. La stampa nazionale è in rivolta contro il commissario tecnico e i suoi azzurri: Gianni Brera annuncia pubblicamente che, se l’Italia vincerà il titolo, si ritirerà in convento. Unico ad andare controcorrente è Italo Cucci, allora direttore del Guerin Sportivo. Una profezia? Forse. Ma fondata su valori certi, tecnici e non.
«Essa nasceva innanzitutto da un minimo di nazionalismo, da quell’atteggiamento patriottardo che solo il calcio è capace di tirar fuori dalle persone», ci racconta Cucci, riandando al vicino passato con un pizzico di fiera nostalgia. «Nasceva da sentimenti positivi: io avevo il sincero desiderio di veder vincere la nostra nazionale. Molti altri colleghi, che erano in aperto contrasto con Bearzot, speravano il contrario, per poter dire che avevano ragione. Salvo poi salire, come sempre succede, sul carro del vincitore. Era sempre stato così: ricordo che nella prima partita dei mondiali d’Argentina del ’78, contro la Francia, al gol del transalpino Lacombe al primo minuto una decina di colleghi è scattata in piedi alle mie spalle, per urlare la sua gioia. Erano italiani, che diamine. Così io tifavo Italia e scommettevo su Bearzot».
Ma c’era anche un ragionamento tecnico alla base della sua fiducia?
«Certo, ed era fondato sul lavoro di Bearzot, del quale avevo imparato ad apprezzare il modo di vedere il calcio. Enzo non si lasciava influenzare da nessuno, andava avanti per la sua strada, sulla base delle sue convinzioni. Tutti gli hanno dato addosso perché aveva convocato Rossi: era un reietto, distrutto nell’anima e nei menischi. Eppure il nostro ct ogni giorno in Spagna mi diceva: Credimi, ho fiducia, sta crescendo, esploderà da un momento all’altro».
Non le pesava andare controcorrente?
«No, anche se percepivo di essere fuori dal mucchio. E non ero del tutto solo a credere in Bearzot. C’era anche Bruno Amatucci e il compianto Pier Cesare Baretti, allora direttore di Tuttosport. Tutti gli altri erano abituati a dargli addosso. Ricordo che una volta, all’indomani di un’incolore vittoria casalinga contro il Lussemburgo, un affermato collega disse addirittura che aveva le «meningi bollite». Usavano parole veramente offensive, perché si erano lasciati travolgere dai sentimenti e avevano perso di vista la realtà».
Si sentiva un “profeta”?
«No, non mi piace quella parola. E’ come se la gente mi dicesse che non dovrei giocare al Totocalcio perché parto avvantaggiato. La schedina la gioco ogni settimana, ma non ho mai vinto nulla…»
Lei ha parlato di mancanza di serenità nei giudizi. Il fatto di dirigere un settimanale la agevolava in questo senso?
«Certamente mi consentiva di meditare, anche se giocoforza non potevamo andar dietro all’attualità. Sin dai numeri dedicati al girone di Vigo avevamo però cercato di mantenere una certa linea, mentre gli altri “picchiavano duro”. Contro Polonia e Perù avevamo giocato male, ma ci dava fiducia il fatto che peggio non potevamo fare, e che eravamo stati noi gli artefici del nostro destino, con le nostre prestazioni. La squadra aveva bisogno di essere circondata d’affetto, invece erano tutti pronti a condannare, nessuno a difendere. Noi, in quei numeri interlocutori del giornale, cercavamo di farlo».
Non solo in campo giornalistico, mi sembra…
«Fa riferimento alle interrogazioni parlamentari mosse alla vigilia contro gli eccessivi guadagni degli azzurri? E’ vero, tanto che, in una puntata del “Processo del lunedì” ebbi un acceso scontro con due deputati, che avevano approfittato come al solito dello sport per farne il loro palco di propaganda. Gli azzurri apprezzarono il mio intervento, ed anche lo stesso Bearzot, che li aveva sempre difesi a spada tratta».
Eppure con il ct i rapporti non erano stati subito idilliaci.
«Anzi, non ci potevamo proprio vedere. Conobbi Bearzot nel ’75. A quel tempo alla guida della nazionale c’era Fulvio Bernardini, che seguivo con affetto anche se, da grande ex-giornalista, era talmente superiore che le sue conferenze stampa erano quasi sotto dettatura. Vedevo con sospetto la marcia di avvicinamento di Bearzot alla panchina azzurra, e mi ero schierato senza renitenze a favore del vecchio Maestro».
Bearzot come la prese?
«Malissimo, anche perché quelle incomprensioni di base sono state aggravate da qualche pettegolezzo che mi ha reso Bearzot veramente nemico. Mi detestava, tanto che ci sono stati momenti di frizione pesante. Se abbiamo fatto pace è tutto merito di Baretti».
Perché?
«Eravamo alla vigilia dei mondiali d’Argentina: io decisi di andare a Budapest a fare una partita premondiale dell’Ungheria contro la Cecoslovacchia, visto che i magiari erano nel nostro stesso girone. Baretti ebbe il coraggio di organizzare un incontro a quattr’occhi tra noi due. Avvenne all’Hotel Hilton, ormai quasi deserto perché era sera tardi. Mi disse perché ce l’aveva con me, io mi spiegai, poi cominciammo a parlare di famiglia, figli, politica, origini, modo di vedere la vita. Facemmo le sei del mattino, a furia di caffè, whisky e le sue aranciate, che lo avevano gonfiato come un pallone. Si parlò anche di calcio, che se lo si prende sul serio è filosofia, metafora della vita, cultura. Rimasi impressionato dal suo modo d’intendere questo sport, che avrebbe imposto alla nazionale con il bellissimo mondiale del ’78. Ci alzammo dalle poltrone che eravamo diventati amici, tanto che in quell’occasione gli feci da osservatore: Enzo ebbe una colica, e non potè venire allo stadio».
Quell’amicizia le fu utile, durante i giorni del famoso silenzio stampa?
«No, il silenzio valeva anche per me, però ero accolto da tutti come un amico. Con Bearzot, nei giorni di Barcellona e Madrid, non si parlava di lavoro, ma di musica e altre cose. E’ stato bello vivere tutta quella situazione senza chiedere vantaggi né riceverne».
E siamo tornati a quattro anni dopo, all’epica odissea di Spagna ’82, che nei ricordi di Cucci viaggia su un aereo. Anzi su tanti aerei più uno. Tutto è legato alla lavorazione del giornale e al tempo caotico del mestiere di giornalista.
«Lavoravamo in maniera frenetica, ma proprio per questo più esaltante. Mi spiego: il giornale aveva naturalmente in Spagna inviati e fotografi. Io partivo per una-due partite, poi tornavo in Italia con le diapositive e i pezzi degli inviati. Preparavo tutto quello che serviva, se possibile impostavo la copertina, poi tornavo in Spagna. Dopo la vittoria col Brasile i miei ragazzi non vollero farmi tornare: “No direttore, non può andarsene ora”. Rimasi così fino alla semifinale con la Polonia, poi ripartii con la promessa di rivederci a Madrid, il giorno della finalissima con la Germania».
E si arriva a quel 10 luglio e all’ultimo, avventuroso, viaggio verso la terra promessa del Santiago Bernabeu.
«Per andare a Madrid prendiamo un piccolo Piper Cheyenne che normalmente era utilizzato dai giornalisti di Autosprint per i gran premi di formula uno. Oltre a me c’è qualche altro amico. A metà strada il comandante ci dice però che l’aeroporto di Madrid non ci dà il benestare per l’atterraggio: le piste sono tutte piene».
Avete rinunciato a quel punto?
«Neanche per sogno. “Invertire la rotta? – faccio al comandante – Non se ne parla nemmeno. Dica alla torre di controllo che non abbiamo carburante a sufficienza per tornare”. Alla fine, dopo che ci avevano proposto decine di diverse destinazioni, atterriamo ugualmente a Madrid, sotto l’ala di un enorme Jumbo. Arriviamo allo stadio. L’Italia batte la Germania e diventa campione del mondo. Dobbiamo ripartire, il tempo stringe, c’è il giornale da chiudere. Ma fuori la città è invasa da italiani inneggianti. “Come faremo?”, penso salendo sulla nostra jeep, quando vedo che la folla si apre al nostro passaggio. La gente aveva capito al volo le nostre esigenze, e ci faceva largo. Fu una sensazione straordinaria, commovente, il degno corollario di una giornata indimenticabile».
Cosa disse a Bearzot dopo quel trionfo?
«Gli chiesi di dare immediatamente le dimissioni. Aveva ottenuto la maggiore delle rivincite, e coloro che lo avevano condannato non lo avrebbero mai perdonato per quello smacco. Poteva chiudere da trionfatore, invece accettò di rimanere per altri quattro anni mettendo in piedi, per Messico ’86, una nazionale squinternata. Doveva accontentare tutti tramite le sue convocazioni, così andammo ai mondiali senza una squadra vera. In seguito mi diede ragione, avrebbe dovuto mollare prima».
Intervista di Gabriele Gentili a Italo Cucci (1994)