Nell’estate dei suoi diciotto anni, l’Inter lo comprò. Un ragazzino biondo di Montebelluna. Aldo Serena. Che disse la mamma? «Ah lei era felicissima: finalmente non avrebbe più dovuto lavare la sacca con la tuta sporca di fango». Era il ‘78, non un momento felice per l’Italia.Il terrorismo, ma soprattutto, ed era quello che si percepiva più nettamente nella vita di tutti i giorni, la diffidenza gli uni verso gli altri. Un giorno andò all’allenamento con la Repubblica sotto il braccio e lo guardarono malissimo.
E papà che diceva? «Non mi ha mai detto “bravo” e non mi ha mai accompagnato a vedere una partita, non c’era tempo e non c’era la mentalità per farlo. Tutti e due tifavamo Inter ma la prima volta che sono andato a vedere l’Inter è stato quando ho giocato in squadra. Però papà è stato un modello per me, a cominciare dall’educazione che mi ha dato». Lavoro, impegno e fatica, «modello Veneto». Non è poco. Suo papà faceva il direttore della fabbrica di scarponi di proprietà dello zio, lo misero dentro a dare una mano che aveva appena undici anni. La mattina a scuola, il pomeriggio in fabbrica e la sera sul campo. Così fino a diciotto anni. Si capisce allora perché è stato un mulo sul campo, per tutta la vita. E poi arrivò l’Inter. La grande squadra di Milano, un orizzonte di successi, anche di soldi. Come reagì papà? «Mi guardò e mi disse: “Aldo, male che va qui c’è sempre la fabbrica che ti aspetta”». Una grande lezione di umiltà. «Mai come quella che mi diede Enzo Bearzot. Mi aveva voluto all’Olimpiade dell’84, lui che aveva vinto il Mondiale due anni prima. Un tipo riservato, fortissimo, credevo di non piacergli. Poi andai in prestito al Toro, dove lavorava un magazziniere, Brunetto Del Campo. Tipo loquace, che ogni tanto mi diceva: “bravo Aldo, vai avanti così che il mister ti chiamerà in nazionale”. Oppure, una settimana dopo, “no Aldo, non fare così sennò il mister non ti chiama” e via discorrendo».
Che cosa pensò lei? «Che Brunetto fosse un chiacchierone, non gli davo retta. Poi però un giorno mi disse: “Aldo, domani il mister ti chiama”. E così fu: Bearzot mi chiamò in nazionale. La faccenda era questa: Bearzot aveva giocato per un periodo brevissimo nel Torino negli anni ‘50 e aveva stretto amicizia con Brunetto. Bene, i due si sentivano ogni tre o quattro giorni, Bearzot gli chiedeva consigli e si confrontava con lui. Capito?». Grandi guide, illuminate. «Come Boniperti. Una volta io ero alla Juve in uno dei tanti prestiti dall’Inter e ci fu la gara Inter-Juve a San Siro. Non tirai in porta ma mi battei come un leone. Il giorno dopo i giornali scrissero peste e corna di me, mi diedero cinque in pagella accusandomi di non aver voluto danneggiare l’Inter. Ora, è vero che l’Avvocato chiamava alle sette del mattino ma il presidente telefonava poco dopo, alle otto. “Driin, pronto è la segreteria del presidente Boniperti, glielo passo”. Stavo per sciogliermi, pensai subito a una ramanzina. E invece lui mi disse: “Aldo, ti sei battuto alla grande, per me puoi anche continuare così senza fare gol”».
I tifosi del Toro non furono così tolleranti quando passò alla Juve: gli gridarono il famoso coro “Serena puttana, l’hai fatto per la grana”. «Mi sfasciarono la macchina mentre ero al cinema con la mia ragazza di allora. Una cosa che non ho mai voluto raccontare per non offendere i tifosi granata, che pure capivo all’epoca e capisco oggi. Però mi hanno fatto paura più di una volta».
Lo faceva davvero per la grana? «Lo facevo perché non avevo la vocazione a diventare un giocatore-bandiera. Non è una cosa facile, sai? Prendi Totti: un idolo ma quanta responsabilità ha portato sulle spalle. Io ho sempre seguito una traiettoria che mi ha portato in diverse squadre, diverse città, diversi mondi. Forse su tutto ha vinto la mia naturale curiosità: se nasci a Montebelluna non vedi l’ora di girare il mondo, di scoprire città e persone». Fra i tanti doppi ex di Juventus e Torino non si può non citare proprio lui, Serena: una stagione in maglia granata e due in maglia bianconera, con 21 gol segnati e due titoli conquistati sul campo, tra cui l’Intercontinentale del 1985.
Molti derby tra Juve e Torino sono stati decisi all’ultimo minuto. Uno di questi, nel 1984, è stato risolto proprio da un suo gol in maglia granata: ce lo può raccontare? «Penso che quella rete abbia influenzato anche la dirigenza bianconera, visto che l’anno successivo mi ha acquistato. È stato un gol importante per me e per il Toro: arrivammo secondi in classifica dietro al Verona. Diciamo che avevamo già fatto le prove contro il Napoli qualche domenica prima, sfida in cui io avevo fatto gol più o meno allo stesso modo. Anche lì il pallone era stato calciato da Júnior dall’angolo. Sergio Brio era rientrato in quel derby dopo un infortunio al menisco e io, dalla mia, l’avevo fatto correre molto sapendo che non era al top della condizione. Così è arrivato un po’ stanco a fine partita: io sono partito sul primo palo e ho colpito la palla di testa».