Ci sono giocatori che riesci a vivere personalmente, quando la tua coscienza calcistica è sufficientemente matura. E così ricordi tutte le loro giocate, i gol, le prodezze e gli errori, e tutte le emozioni che ti hanno procurato. Poi ci sono i giocatori che non hai potuto ammirare dal vivo, perché protagonisti di un tempo che non contemplava la tua presenza. E allora lasci che siano i video, le immagini, la penna dei grandi cronisti a proiettarti in un’epoca che non è stata la tua. Ma non per questo le emozioni ti sono precluse.
Altrimenti non avrei la pelle d’oca dinanzi all’urlo di Tardelli, o alla esuberante esultanza del presidente Pertini. E non penserei, con un filo di malinconia, a quanti altri trofei avrebbe potuto ancora sollevare Valentino Mazzola con il suo Torino senza Superga. E non sorriderei di gusto alla furbata (lecita, sia chiaro) con la quale Peirò sottrasse il pallone al portiere del Liverpool Lawrence nel ritorno della semifinale di Coppa Campioni. Quel trofeo poi l’Inter di Mazzola (Sandro) lo conquistò ai danni del Benfica di Eusebio.
Era il 1965, era la Grande Inter. Una squadra leggendaria, che però circa quattro mesi prima era incappata in una sconfitta storica, di cui ancora oggi si parla. Fu la prima e unica che i nerazzurri patirono in campionato con il Foggia. La squadra di Oronzo Pugliese e di Cosimo Vittorio Nocera. Ma anche di un altro personaggio singolare.
E qui torniamo all’inizio. Essendo il sottoscritto nato nel 1984 è difficile parlare di qualcosa che non ho vissuto, a meno che non mi serva dell’ausilio di chi in quel periodo c’era. Però, a mio modo, ricordo uno dei protagonisti di quel Foggia. Una squadra che non possedeva l’anima spettacolare del Foggia di Zeman, né l’eleganza e il talento della formazione di Maestrelli; ma che un posto nella storia ce l’ha, ed è anche piuttosto grande. Perché è la squadra che conquistò per la prima volta la serie A.
In quella squadra il cui undici titolare per i foggiani si recita come il più conclamato Sarti-Burgnich, Facchetti ecc, c’era un giocatore che a suo modo ha fatto la storia, anche per quel che è stata la sua vita fuori dal terreno di gioco. A Matteo Rinaldi sono legati i ricordi dell’infanzia, delle giornate trascorse a casa dei nonni. A un uomo prestante, reso titanico dalla capacità di ingigantire le cose e persone che solo agli occhi di un bambino è concessa, che circa 2 volte al mese si presentava a casa trascinando con sé una bombola del gas. Il tutto con una semplicità e una naturalezza disarmanti che denunciavano una forza fuori dal comune.
Ero ammirato, oltre che compiaciuto dai modi gentili ed educatissimi del gigante. Solo dopo diverse apparizioni scoprii che Matteo, il Gigante delle bombole era stato un giocatore del Foggia. “Ma davvero?”. “Sì”, “e quando?”. “Tu non eri ancora nato”. Curioso, e forse non casuale, che quella scoperta si materializzò nel periodo in cui il Foggia era appena tornato nella massima serie.
Quel che ha fatto sul campo lo scoprii anni dopo, grazie all’aiuto delle statistiche. Oltre 200 presenze in maglia rossonera, 87 delle quali in serie A. Solo due gol nella massima serie entrambi nella stessa stagione. Il primo indimenticabile, per lui, per il Foggia, per tutti. L’inzuccata con la quale dopo tre minuti freddò Albertosi a Firenze fu anche la prima marcatura di sempre del Foggia in serie A. E poco importa se poi Hamrin e due volte Orlando rovinarono la festa ai rossoneri. Quel gol, quella stagione, e un celeberrimo 3-2 all’Inter di quattro mesi dopo, furono sufficienti perché i ragazzi di Oronzo Pugliese si guadagnassero l’ammirazione di un Paese, e la venerazione di un’intera città.
Ricordi foggiani sulle figurine
Se Matteo fosse ancora vivo lo avrei senza dubbio intervistato. Per dar sfogo alla mia curiosità, per esplorare un mondo a me sconosciuto com’era il calcio di 50 anni fa. Per tratteggiare un’immagine della Foggia di quegli anni. Magari ricordando le sue periodiche visite a Corso Roma, le poche battute con mia nonna, e un sorriso perennemente stampato in viso, mentre sistemava la bombola nuova. Se n’è andò un giorno di giugno del 2003. Ero in procinto di sostenere gli esami di Stato, la notizia mi lasciò di sasso.
Un pezzo di infanzia se n’era appena andato. Pochi mesi prima un altro Foggia, quello di Marino, del trio De Zerbi-Greco-Del Core, di Pazienza e Carannante, aveva stravinto il campionato di serie C2. Anche i giornali nazionali non negarono un pensiero alla Roccia del Gargano, l’uomo che passò dai campi di serie A a una vita semplice, lontano dai riflettori. Epoche diverse, senza i vizi, i miliardi, le esclusive e le smentite, le estenuanti trattative con i procuratori, e i contratti plurimilionari. Rinaldi era solo un giocatore di calcio.
Alessandro Tosques