Tazio Roversi ha giocato 341 partite nel Bologna, dal 1965 al 1979. Non era un difensore dal tocco fine, ma nessun aficionado locale glielo stette mai a rinfacciare. Terzino destro, si occupava dell’ala sinistra avversaria, sfruttando le proprie doti d’anticipo. Mai una polemica, poche le interviste, nessuna propensione all’apparire televisivo; lui spiccava solo sullo sfondo verde del campo, con la grande testa gialla dalla pettinatura invariabile, e se volevi sapere che voce aveva eri obbligato a conoscerlo di persona.
Nato il 21 marzo 1947, doveva correre più veloce per arrivare nella vita, il putto biondo di casa Roversi. Non a caso gli mettono nome Tazio, come Nuvolari. Suo padre macellaio ne sa poco di calcio e ne vede ancora meno, chiuso nella sua bottega di Moglia, avvolto dalle nebbie del mantovano. Ma che il piccolo Tazio sia nato per giocare a pallone, lo sa bene Mamma Ilde che lo lascia fare.
Che possa diventare un campione di serie A, se ne accorgono presto persino a Roma, un’estate che era in vacanza a casa della zia Lina e si esibisce nel giardino del condominio. Sarebbe potuto diventare una colonna della difesa giallorossa, ma il suo destino sarà quello di sventolare come una bandiera nella squadra della “Dotta”. A 16 anni è già nella rosa del Bologna “che il mondo faceva tremar”, quella dei campioni d’Italia del ’63, e per il suo roccioso stile difensivo in molti ipotizzano un futuro degno di Tarcisio Burgnich.
In Nazionale lo chiameranno solo una volta, il 20 novembre del ’71 contro l’Austria, quando sulle spalle aveva già collezionato 8 stagioni, consecutive da titolare sotto le Due Torri. Quel numero 2 arcigno e determinato che dà tutto se stesso in campo, è amatissimo e apprezzato dal palato fine dei calciofili bolognesi.
Gioca la sua ultima partita in rossoblu contro il Perugia di Bagni, e sarà uno degli eroi di quell’impresa che regala al Bologna un’insperata salvezza. L’ anno successivo non viene però confermato da Perani, suo ex compagno, che lo cede al Verona in cambio di Spinozzi. Orfana di Nuvola Bionda, quella squadra finisce nel garbuglio palustre del calcioscommesse e poche stagioni più tardi tra i mogi meandri delle serie inferiori. Gli inizi del male di Roversi risalgono all’85: un giorno mentre allena le giovanili del Bologna viene colto da una crisi epilettica. I primi accertamenti escludono pericoli di sorta, ma poi arriva una ricaduta e le nuove indagini rivelano un tumore. La moglie prova a non dirgli nulla.
Tazio tenta inutilmente di fermare il male estremo per 14 anni assieme a lei, mentre nei 14 giocati con la maglia rossoblu era sempre riuscito a fermare l’ultimo uomo da solo.
Così ricorda la moglie Annamaria: “Mi dissero che Tazio avrebbe avuto forse dieci-quindici anni di vita al massimo, ma che la malattia avrebbe fatto il suo corso. Non ci volevo credere e non gli dissi mai nulla. Nel ’96 fu operato per la prima volta. L’intervento era riuscito, ma dopo due anni cominciarono a paralizzarsi braccio e gamba destra e allora vedendo che stava sempre più male cominciai a girare come un’ossessa tutti gli ospedali d’Italia per poi farlo rioperare”. Sono 14 anni di catenaccio alla vita e solo negli ultimi quattro mesi il Tazio del Dall’Ara si arrende ad un letto, senza più la possibilità di comunicare con il mondo.
“Quello fu il periodo più duro e anche il più amaro. Mi resi conto che in tutta quella faccenda comunque non c’era stata la stessa attenzione da parte dei medici che invece ci sarebbe potuta essere se fosse stato ancora un calciatore in carriera. Il Bologna lo aveva abbandonato, del resto non gli serviva più. Solo Marocchi e Pivatelli ogni tanto avevano chiesto notizie sul suo stato di salute, ma dalla società neanche una telefonata”. Tazio è morto, nel ’99, a 52 anni, dopo lunghe sofferenze che gettano una luce inquietante sui coni d’ombra d’uno sport in cui tanti piccoli traumi ripetuti possono risultare fatali. Anche in Paradiso gli attaccanti dovranno pagare dazio, quando incontreranno Tazio.
Fonte: “Storie di Calcio”