Nello sport, come nella vita, ci sono episodi che sanno di vero e proprio miracolo. Per questo non fanno fatica a diventare leggenda e a tradurre l’evento sportivo in vera e propria letteratura. Uno di questi è quella clamorosa salvezza di quella che verrà per sempre ricordata come la Lazio del meno nove, che iniziò il campionato di B proprio con la penalizzazione di nove punti per una vicenda di calcio scommesse.
Uno degli Angeli del meno nove è stato l’allora difensore centrale Angelo Gregucci, allenatore dell’Alessandria in Serie C protagonista del miracolo in Tim Cup, oggi allenatore della Primavera del Frosinone dopo essere stato un fedelissimo di Roberto Mancini al Manchester City, all’Inter, allo Zenit San Pietroburgo e in Nazionale.
“Gregu” nel 2020 era ritornato a guidare i Grigi, dopo che nel 2016 era riuscito a portarli in semifinale di Coppa Italia contro il Milan. Davide contro Golia, con mezza Italia a tifare per i più deboli: un’altra pagina destinata a non essere mai dimenticata, da insegnare ai nostri figli per dire loro che il calcio non è solo business spietato, ma anche sentimento.
Per Gregucci quella salvezza al termine del campionato di serie B 1986-’87 “vale come uno scudetto solo per chi ha vissuto intensamente insieme a noi quel momento. Non eravamo una squadra eccelsa a livelllo tecnico. Erano tanti piccoli campioni di emotività, ma non per colpa nostra ma della gente. Il volano delle nostre prestazioni era il pubblico. Noi siamo arrivati terzi o quarti come incassi in Italia. Noi avevamo il pathos necessario per fare le prestazioni”.
Un’impresa incredibile che durante il percorso ha avuto non pochi momenti di difficoltà: “Siamo andati a fare gli spareggi a luglio con 35 gradi. Non fu uno scudetto ma la consacrazione di una squadra aggrappata ai sacrifici. La storia si salva con la sofferenza e quando il campionato ci stava portando al riparo, noi con due-tre risultati sbagliati siamo tornati in zona retrocessione. Ci siamo rilassati troppo e siamo ripiombati sotto. Non avevamo una squadra eccelsa, ma campioni dal punto di vista emotivo. I nostri anziani sono stati guide per noi. Il nostro allenatore idem”.
Fu dalle parole del burbero Eugenio Fascetti – che disse di volere solamente giocatori motivati – che nacque quella Lazio, come racconta in un aneddoto lo stesso Gregucci: “Fascetti intendeva dire che gli servivano non dei giocatori ma dei guerrieri per combattere fino all’ultimo. C’erano giocatori che venivano dal Milan e dalla Juventus. La Lazio era retrocessa d’ufficio, Fascetti voleva un messaggio di coesione. Ci siamo riuniti sotto un sottoscala a Gubbio. Anche lui aveva un discreto mercato da allenatore e ci disse ‘io ho bisogno degli uomini, rispetto le vostre scelte ma chi vuole restare deve sapere di combattere, chi non se la sente… quella è la porta’. Io guardavo la faccia dei più esperti e vedevo coesione negli occhi. Nessuno aveva battuto ciglio, in un sottoscala abbiamo capito di essere una squadra. Nessuno di noi abbandonò la squadra e siamo rimasti a combattere per la causa. Era diventato un ideale da mantenere. Non sono stato la pietra miliare della scelta, ero giovane e venivo dalla Serie C. Quando sei su una nave e stai remando, anche se sei in difficoltà e vedi il timoniere fare finta di nulla, tu continui a remare”.
Così è stato fino all’ultimo secondo dello spareggio con il Campobasso, con Mimmo Caso (foto a fianco) e compagni che sono sempre stati convinti di farcela. Il popolo laziale dava loro spinta, pressione, paura, ansia. Ma nel momento che i giocatori scendevano in campo erano in dodici. Fu proprio il tifo a condizionare in maniera fondamentale le prestazioni della squadra. Il popolo laziale dopo la retrocessione in Serie C (poi evitata con la penalizzazione di nove punti) reagì con orgoglio. Tutti in strada a manifestare per salvare la propria passione sportiva. Poi ci fu speranza, poi consapevolezza.
“Questi sono i nostri giocatori, anche sconosciuti, dobbiamo sostenerli” si sentiva dire. Ancora Gregucci: “La gente era decisiva, viveva le nostre emozioni. La partita con il Vicenza all’ultima di campionato, dal punto di vista emotivo è stata una partita talmente forte che io al gol di Fiorini non ricordo un boato così fragoroso in un campo di calcio. Quel boato lì posso ricordamelo. È fra i primi tre boati della storia della Lazio”.
Un controsenso incredibile se si considera che un pubblico come quello non si è visto nemmeno nelle notti di Champions: “Lo stadio era stracolmo. Vedendo Lazio-Real Madrid di Champions League io mi sono chiesto che fine avessero fatto i sesantasettemila di Lazio-Vicenza”.
Mario Bocchio