“I migliori calciatori che ho allenato si chiamano Lothar Matthaus e Marco Cacciatori“ Corrado Orrico.
Centravanti completo. Predilezione per il sinistro e il colpo di testa, gradevole movimento senza palla. Esibisce fisico importante con le spalle un po’ ricurve ma funzionali, in quanto frutto di una spontanea inclinazione. E sembra conoscere ogni traiettoria, ogni svolta , ogni scorciatoia per andare a bersaglio.
Di stirpe apuana come Orrico , con la volontà scolpita nel marmo, Marco è uno timido , taciturno. E quando parla, quasi sempre brontola. Fa il muratore, l’imbianchino, mestieri così e intanto gioca a calcio, sognando Gigi Riva: “I miei erano separati. E nel calcio ho trovato l’appiglio per uscire dal guscio. Forse anche per cominciare a diventare uomo. Ci credevo già nella Carrarese, la squadra della mia città”.
Con un declinante risvolto provinciale, tutti lo chiamano “Cacetta” . E poi in serie D ancora si può. Anche se dopo metà campionato l’ha prenotato il Perugia: Marco non è il cannoniere del suo girone, ma quello assoluto della categoria. Con gli occhi languidi della sofferenza, di chi ha visto troppe cose : “Ho fissato il mio obiettivo in serie A col Perugia: giocare quindici-sedici partite”. Per Castagner prendere perfetti sconosciuti dal retrobottega del calcio e lanciarli in A è un’abitudine: “A volte può sembrare che Marco Cacciatori si estranei un po’ dal gioco . Anzi, sembra non esserci proprio in campo . Nessuno lo nota. Ma questo qui è un ragazzo che il gol ce l’ha nel sangue. Guardate che ha fatto venticinque gol con la Carrarese. E si farà perché ha numeri”.
Là davanti se n’è appena andato Novellino e sembra la fine della favola del Perugia. Ma è arrivato Casarsa. Poi c’è Speggiorin, ci sono i blitz di Vannini e Bagni. Che è un ex-compagno di Marco al Carpi. Quella di Castagner è un’opera d’arte che cambia continuamente e non cambia mai.
E non perde mai.
Per l’esordio di Marco in serie A la divina provvidenza sceglie lo stadio di San Siro, tanto per gradire . E l’Inter è in vantaggio 1-0. Castagner lo chiama:“Entra e facci pareggiare”. Marco va e fa: “E’ un sogno. E’ un sogno. Come è stato ? Tiro da fuori area, forse di Dal Fiume. Bordon l’ha respinto e io mi sono buttato anticipando Bini. Devo molto a Castagner. Mi ha insegnato a stare calmo . E a non brontolare. Anche se io, ogni tanto, brontolo lo stesso”.
La giornata non è finita. Anzi, il meglio deve ancora venire, perchè Marco è invitato ufficialmente alla Domenica Sportiva. Ma non è tanto questo.
Perchè lì gli preparano un faccia a faccia con un altro attaccante: si chiama Gigi Riva. Gli fa una domanda, una sola. Marco balbetta qualcosa e finisce la trasmissione : “Sto ancora sognando, ho capito”.
Speggiorin è acciaccato e Marco viene gratificato del titolo di centravanti della squadra capolista della massima serie. Il big match è contro il Milan. Ormai Marco a San Siro è di casa. E il suo avvio è semplicemente devastante . Palla alta e lui smista di testa per il siluro di Vannini: salva Albertosi. Il Perugia stringe l’avversario in un angolo: scende a destra il numero 8 del Perugia, quello dai capelli lunghi e ricci. Non è Renato Curi, anche se tutti pensano a lui.
Sul cross calibrato di Butti , Marco va in terzo tempo e si ferma a mezz’aria . Sulla sua frustata, il palo trema e Albertosi guarda: Vannini segna.
Al ritorno con l’Inter c’è lo snodo di una stagione. Perugia di nuovo sotto, stavolta per 2-0. Castagner lo chiama. Marco entra per calamitare un altro pallone lassù: Vannini deve solo appoggiare per l’1-2. Poi Marco viene steso in area da Canuti: gli danno rigore , ma poi glielo tolgono. Lui non molla. Al novantatreesimo, guida il pacchetto di mischia per l’ultimo assalto : Ceccarini fa 2-2. Il Curi minaccia di crollare.
Ma quel giorno si perde Vannini e, con lui, lo Scudetto.
Marco fallisce il suo obiettivo di quindici partite: perchè ne gioca quattordici. Viene impacchettato e spedito in B al Vicenza come conguaglio per l’operazione Paolo Rossi. Un giorno in allenamento fa una scommessa: una gara di velocità con Luciano Marangon. Sono trecento metri. Alla fine della corsa, Marco sente che qualcosa non va : “Sei il solito brontolone. Non hai nulla. Si risolve tutto in un paio di giorni”. La diagnosi ufficiale è ascesso all’inguine.
Ma ha un tumore al testicolo. Servono due interventi chirurgici tra Vicenza e Milano . Passano due mesi e lui torna incredibilmente ad allenarsi . Poi viene aggregato alla squadra come bagaglio appresso: “Era già una grossa soddisfazione partire in pullman coi compagni. Pensavo non mi toccasse nulla di più”. A Marassi, Ulivieri lo butta nella mischia per venti minuti. Marco risponde positivamente. Tanto che viene inserito dall’inizio sette giorni dopo, in casa col Cesena : si perde 0-2 e lui viene giudicato il peggiore in campo.
Si rimette a lavoro , ma ne esce stravolto. Il suo campionato finisce con sei mesi di anticipo. Marco ha il polmone destro in metastasi: “Ci dispiace, le restano tre mesi di vita”.
“Il Vicenza ha pagato delle cure. Poi non si è fatto più sentire. Anche se una volta ho fatto quindici telefonate e mi ha mandato un assegno di mezzo milione. Per me è stata come una lunga, interminabile partita contro un avversario che sembrava volesse prendere il sopravvento. Proprio nel momento in cui dovevo affermarmi, forse esplodere, la malattia del secolo mi ha dirottato nel tunnel della sofferenza. E mi ha distrutto . Ho capito subito che avrei potuto vivere se mi fossi psicologicamente aiutato. E soffrivo più dei miei compagni, anche se non sapevo nemmeno se potevo chiamarli così”.
“Il grande calcio è cinico e mi aveva chiuso le porte in faccia. Ti usavano , poi ti mettevano da parte. Non servivo più. Ho attraversato un momento di grande sconforto e di sfiducia verso la società in genere. S’è fatto vivo solo Salvatore Bagni. E’ venuto anche a trovarmi . Gli altri non mi hanno mai neanche telefonato”.
Gli danno la notizia: è guarito. “La prima cosa che ho fatto tornando a casa è stata prendere il pallone e andare a giocare”. Le gambe sembrano rinsecchite, i muscoli addormentati. Nell’estate ’81 ricompare nell’angolo remoto dei tornei estivi . Il paesino si chiama Bedizzano , proprio dalle sue parti. Marco ha maglia gialla coi bordi verdi e un inedito numero 6. Gli danno la fascia di capitano: “Era un piccolo passo. E un divertimento con gli amici. Ma non pensavo cosa sarebbe accaduto dopo. La medicina è stata miracolosa , ma io non mi sono mai arreso. Mai . Avevo una moglie giovane e un figlio piccolo: non potevo morire. La mia forza interiore, la mia voglia di vivere e di non lasciare i miei cari, la mia voglia di continuare a giocare hanno contribuito a risolvere positivamente questa brutta avventura . La vita è troppo bella”.
Passa a una squadra che è decisamente fuori dall’Almanacco Panini: si chiama Fratelli Segnani. Marco sembra un reduce , ma non sa da cosa . Per fortuna, non ha dimenticato come si segna. Anzi, inventa dei modi nuovi. Col Romagnano in Promozione mantiene il ritmo di un gol a partita. Ma nemmeno questo c’è nell’Almanacco. Perché nella sua scheda calcistica questi anni vengono autorevolmente etichettati con una sola parola: “inattivo”. Come se avesse litigato per l’ingaggio o se ne fosse andato a giocare a calcetto: “A quel punto decide di riprendermi la Carrarese. Ma per farmi un favore. Anche perché non avevano la garanzia che potessi tornare quello di prima. Forse gli avevo fatto pena. E mi hanno fatto un contratto a gettone”.
Marco paga contanti : inizia con una doppietta al Treviso poi segna ancora. Continua. Tutti pensano si fermi il primo aprile 1984, quando la Carrarese sta vincendo 2-1 contro il Prato . Mancano pochi minuti alla fine . E Marco arretra con esasperata lentezza verso la bandierina, con due uomini addosso. Un altro al posto suo prenderebbe ancora tempo. S’imboscherebbe, cercando il rimpallo per lucrare un corner. Lui si gira e passa in mezzo ai due difensori. Poi continua a correre follemente in parallelo alla linea di fondo. Ne fa fuori un altro solo con la finta di corpo, sfiorando la palla col sinistro. Alla fine siede il portiere e appoggia nella porta vuota col destro.
Non gli basta: ne riserva qualcuno anche per il grande calcio. Come in Coppa Italia col Catania e col Como: “I gol che ho fatto mi servono. Mi servono per dimenticare. Non pensavo che a una grande sofferenza seguisse una grande felicità”.
Quando ha smesso, ha chiesto la pensione di calciatore, ma gli hanno risposto che mancavano i contributi dei quattro anni in cui era rimasto inattivo. Sono venticinque-trenta milioni di lire. Per provare a raccogliere qualcosa, Marco spedisce la sua autobiografia in omaggio a tutte le società di serie A e B.
Confidava in un aiuto, pensava di meritarlo. Non voleva essere Lance Armstrong, ma semplicemente Cacetta. E stavolta il grande calcio si è accorto veramente di lui: infatti gli ha risposto una sola società su trentotto. L’appello del solito giornalista intellettuale vagamente di sinistra smuove qualcosa. C’è perfino un trafiletto struggente.
Si gioca una partita in onore di Marco Cacciatori. I soldi per i contributi saltano fuori in qualche modo.
Il grande calcio ha realizzato una piccola impresa. E anche stavolta lui ce l’ha fatta.
Ernesto Consolo