Diciamo la verità. Negli ultimi anni Alberto Malesani, (ex) allenatore di calcio con un curriculum decennale speso sui campi di svariate città italiane, è stato soprattutto, se non unicamente, un fenomeno del web. Il mondo del calcio si è dimenticato dell’Alberto Malesani allenatore, mentre in compenso il popolo virtuale lo ha eletto come un personaggio da idolatrare, capace di godere di una fama certamente superiore, almeno per quanto riguarda il minutaggio, ai celebri quindici minuti profetizzati da Andy Warhol.
Oggi associamo il faccione di Malesani, nato a Verona il 5 giugno 1954, alla sua storica conferenza stampa al Panathinaikos, nell’unica esperienza che il tecnico ha vissuto fuori dai confini nazionali. Sì, storica. Non ci sono aggettivi differenti, fatta eccezione per qualche sinonimo. Memorabile. Leggendaria. Epocale. Ciò che è doveroso sottolineare, adesso, è che, dalla vita, Alberto Malesani è stato sconfitto. Non perché ha perso qualche partita, o ha portato un paio di squadre alla retrocessione, o perché ha concluso la sua carriera perdendo le ultime cinque partite disputate. Il Male, suo primo soprannome, è uscito sconfitto perché non è stato capace di farsi ricordare dalla gente per ciò che è stato realmente.
Malesani. come racconta Giacomo Van Westerhout, appartiene a quella ristretta, ma eccellente, cerchia di allenatori diventati tali senza aver mai avuto un buon passato da calciatore; nella fattispecie, il mister veronese appende le scarpette al chiodo a ventitré anni, dopo una onesta e discreta carriera dilettantistica. Il calcio è sempre stata la sua passione principale, ma a quell’età non ha altra scelta: deve smette di giocare poiché riesce a trovare un impiego nella sezione logistica della Canon. Complici varie trasferte lavorative, Alberto si reca più volte ad Amsterdam, in Olanda, ovvero la città che ha avuto il merito, storicamente, di giocare sempre d’anticipo sul resto del continente europeo (e il calcio è solo uno dei tanti esempi). Qui nel nord Europa, Alberto asseconda la propria passione: quando ha un po’ di tempo libero si ferma a guardare gli allenamenti delle squadre di calcio locali, osserva, appunta, memorizza.
Il calcio olandese sarà sempre una sua grande ossessione: gli anni della sua prima esperienza da allenatore, al Chievo Verona, combaciano con l’epopea dell’Ajax di van Gaal, da cui il Male prenderà il suo sistema di gioco preferito, uno spregiudicato 3-4-3. Già, il Chievo. Malesani nel 1990 è ancora un funzionario dell’azienda giapponese, ama il suo lavoro, i ritmi aziendali, le trasferte. Fino a quando la società gialloblu, all’epoca in serie C, gli propone un contratto d’allenatore delle giovanili. Alberto però all’epoca possiede una certa esperienza nel ramo aziendale, così al Chievo non si limita al lavoro quotidiano su un campo di calcio, ma si occupa anche dei contratti dei calciatori e della campagna abbonamenti. Ricopre un ruolo da manager all’inglese, una tipologia di occupazione che in Italia non esiste. Resta a Verona sette anni, da “tuttofare” diventa primo allenatore: porta la squadra in serie B e trascorre un triennio nella serie cadetta, sfiorando anche la promozione in A. Le grandi squadre cominciano a corteggiare questo tecnico giovane e ambizioso, un prodotto della campagna veronese al quale risulta ancora tremendamente legato. La Fiorentina di Cecchi Gori si fa avanti e il Male non può rifiutare.
L’esordio del mister in A è eccezionalmente malesaniano. Si gioca a Udine, periferia del nord-est, a oltre duecento chilometri dalla sua Verona. La partita è un ottovolante, come la vita e la carriera di Alberto. A pochi minuti dal termine la Fiorentina è sotto di un gol, ma, grazie a una doppietta di Batistuta, riesce a ribaltare il match. Malesani esulta, si emoziona (i video immortalano qualche lacrima, lui dirà di essere allergico) e corre festante, in polo e bermuda, sotto la curva viola. Il calcio per il mister è questo: emozione, pathos, follia, romanticismo.
Questo suo identificarsi totalmente con la tifoseria fa scoccare l’amore con Firenze, ma non con Cecchi Gori, il quale lo esonera a fine stagione, nonostante la qualificazione europea. Pazienza, ormai il Male è un allenatore vero, ha saputo reggere l’urto della serie A e ha tanti ammiratori sparsi per il paese. Lo chiama il Parma, lui accetta subito. Qui scrive pagine di storia della città e del calcio italiano. Vince ben tre coppe nel giro di cento giorni. Su tutte svetta la Coppa Uefa conquistata nella primavera del 1999, in quella che è probabilmente la partita più importante della storia del mister veneto. Il Parma di Malesani surclassa il Marsiglia di Blanc, Pires e altri freschi campioni del mondo francesi. Un 3-0 che non ammette repliche. A fine anno la FIFA elegge i principali allenatori protagonisti della stagione. Alberto è lì, al terzo posto, dietro a due mostri sacri come Sir Alex Ferguson e il colonnello Lobanovsky. Tolluntur in altum / ut lapsu graviore ruant. Da qui in avanti la carriera di Malesani subirà un lento, ma costante e inesorabile declino.
Dalla via Emilia ritorna a Verona, sponda Hellas, squadra di cui è sempre stato tifoso. C’è spazio per un’altra corsa malesaniana sotto la curva nel derby di Verona, anche questa volta dopo un 3-2 in rimonta. Il Chievo nel frattempo è in serie A e, nonostante perda entrambe le stracittadine, riesce a ottenere una storica qualificazione in Coppa Uefa.
È il Chievo dei miracoli guidato da Gigi Delneri: è l’eredità del lavoro, calcistico e di programmazione, iniziato da Malesani agli inizi degli anni ’90. Dall’altra parte dell’Adige, l’Hellas di Alberto, dopo un girone d’andata eccellente, chiude il campionato perdendo lo scontro-salvezza a Piacenza. È retrocessione.
È la prima grande sconfitta del Malesani allenatore. Da qui in avanti la sua carriera sarà simile a quella di tanti suoi colleghi abituati a sopravvivere nelle stagnanti paludi del calcio italiano. Spesso vittima di qualche presidente irascibile (Preziosi a Genova e Zamparini a Palermo), negli anni 2000 riesce comunque a ritagliarsi un ruolo nell’immaginario collettivo grazie alla già citata conferenza cult in Grecia. Sul campo può dire di aver disputato una onesta Champions League guidando il Panathinaikos (riuscì a strappare un pareggio al Barcellona) e di essere riuscito a salvare dignitosamente un Bologna nel bel mezzo di un drammatico cambio di proprietà (per mesi nessuno in società prese lo stipendio). La salvezza all’ombra della Torre degli Asinelli avrebbe potuto nuovamente far svoltare la carriera di Alberto, ma così non fu. L’ultima sua esperienza è tragicomica: cinque partite alla guida del Sassuolo, cinque sconfitte.
Nelle interviste più recenti Malesani si è definito orgogliosamente un «precursore», volendo sottolineare soprattutto il suo ruolo di pioniere e innovatore. La storia ha fatto il suo corso e oggi vediamo numerosi allenatori, alcuni molto celebri, esultare come folli a un gol della propria squadra. Malesani si comportava così vent’anni fa e veniva etichettato come allenatore eccentrico, singolare, sopra le righe. È un paradosso bizzarro e sconfortante. Lui, Alberto Malesani, considerato un personaggio stravagante e fuori dagli schemi, nonostante abbia sempre mostrato al mondo il suo volto più vero, autentico, genuino.
È la tragica conseguenza di chi non finge in un mondo governato dalla finzione. Malesani non ha saputo cogliere un passaggio fondamentale della storia del calcio contemporaneo: da semplici allenatori, i mister, oggi, sono dovuti diventare anche degli eccellenti attori. Bisogna saper recitare, reggere la pressione, parlare con la squadra in un modo e con i giornalisti in un altro. Quando un giornalista greco lo attacca per un pareggio casalingo, lui sbotta e diventa un fiume in piena. Difende il suo lavoro a spada tratta, incurante del fatto che egli, allenatore del XXI secolo, in conferenza stampa dovrebbe recitare una parte imparata a memoria. A quel giornalista avrebbe dovuto rispondere con una frase di circostanza. Gli altri si comportano così, lui no. Malesani si dimena, vomita parolacce, grida, insulta, si infuria. Ancora oggi non gli piace menzionare questo episodio, come si è detto vorrebbe essere ricordato per quello che ha fatto sul campo di calcio. Gli anni del primo miracolo al Chievo, la Fiorentina spettacolare, il Parma delle tre coppe in un anno; ma anche il Bologna della salvezza, le sue corse sotto la curva un decennio prima di Mourinho e Conte, l’affetto dei campioni (quali Cannavaro, Buffon, Thuram) che lo hanno avuto come allenatore. La spontaneità, l’istinto. L’amore per il calcio, quello semplice, genuino, popolare. Forse la storia di Alberto Malesani è una struggente metafora che ci mostra cosa è diventato il calcio negli ultimi decenni. Probabilmente sarebbe stato meglio non scoprirlo.