Diceva Giovanni Arpino che il dialogo alla Juve l’ha insegnato a tutti Giampiero Boniperti, coi suoi silenzi e gli sguardi. Bisogna star zitti e tener duro per partire da un lavoro come lustrascarpe di Bauru ed arrivare alla Selecao . E poi alla Juventus. Soprattutto se la tua famiglia è ferita. Da un padre che ti ha dato il nome di un imperatore romano, ma poi è svanito. Se tua madre fa la donna di servizio e tira su anche l’altro figlio. Che si chiama Cassius Clay. Già, perché prima di affogare in una bottiglia, il padre stravedeva per la boxe e la storia romana.
E il piccolo Julio Cesar da Silva, prima della rapida esperienza come aiutante muratore, è intento a togliere la segatura dai mobilifici , a racimolare l’essenziale come custode di automobili (annesso lavaggio) e portaborse al mercato. Anche se sogna Zico e Ademir da Guia, Julio Cesar è per il momento solo il raccattapalle del Noroeste, la squadra di Bauru. Da queste parti è cresciuto calcisticamente un certo Pelè. Ma, quando si presenta l’occasione, Julio Cesar sbatte contro l’ostacolo più grande: Dona Leny, sua madre. Che per tre volte gli fa saltare il provino coi campioni del Brasile del Guarani di Campinas. Poi Julio Cesar scappa di casa: prontamente arruolato. A tredici anni gioca con quelli di venti. Figuriamoci a quindici : “Nel calcio, come nella vita, bisogna adeguarsi a ogni situazione”.
A testa alta, fa il mediano. Arriva il primo contratto professionistico e il dirottamento in mezzo alla difesa. Incrocia i guantoni con un attaccante abbastanza promettente: si chiama Antonio Careca , che diventa subito suo amico. Passano pochi mesi e Dona Leny si trasferisce a Campinas, perchè, a sedici anni, Julio Cesar è in prima squadra. Ma Dona Leny preferisce continuare a lavorare. Rimarrà, tra l’altro, presto vedova. Il tecnico del Guarani si chiama Zè Duarte e dispensa professionalità . Sarà come un nuovo padre per Julio Cesar. Che diventa “il tedesco”. Dieci anni al Guarani e arriva la Nazionale. Ma davanti a lui c’è un monumento come Oscar. L’esordio nella Selecao del richiamato Telè Santana, l’8 aprile 1986 a Goiania, è una partita che non vedremo più: Brasile – Germania Est , risultato finale 3-0.
Poi alla vigilia di Messico ‘86, Oscar viene messo da parte. E Julio Cesar viene universalmente eletto il miglior difensore centrale della competizione. Un esordiente veterano con la forza fisica e quella dei nervi distesi. E si becca un altro soprannome, sinistro e puntuale come un temporale messicano : ”La muraglia nera”.
“Sono una persona molto fortunata” . Al Jalisco di Guadalajara il quarto di finale è Brasile-Francia, ma per Platini e soci è come se fosse in trasferta: sulle tribune una grande onda gialla. Una bandiera verdeoro costa il doppio di una francese e una maglia di Zico costa il triplo della maglia di Platini. “E’ meglio di una porta blindata”, prova a smontare Julio Cesar il tecnico francese . A disturbare il tedesco anche Marzia, una splendida ragazza messicana che, pur di avvicinarlo, s’intrufola dappertutto, anche nelle conferenze stampa: nessun riscontro. E’ una partita stupenda. Macchiata solo dal protocollo dei calci di rigore. La Selecao esce di scena e il tedesco sbaglia un penalty (in ottima compagnia). Il portiere francese Bats, che ha già parato un rigore a Zico , dice a Socrates “ Scommettiamo che me lo tiri a destra? ”. E proprio lì lo prende.
Julio Cesar è stato il migliore in campo del Brasile e giocando acciaccato tutti i supplementari. Si carica sulle spalle non solo la sconfitta, ma il peso di un’intera nazione : ”Sono andato sulla palla tranquillo e quando l’ho vista finire sul palo, volevo sprofondare. Mi vergogno di questo errore e non mi sento più degno di indossare la maglia della nazionale, perché l’ho fatta troppo grossa. Credetemi non ho il coraggio di tornare a casa. Mai in vita mia ho provato una delusione così forte”.
La Francia concede l’onore delle armi . Platini promette che, quando tornerà nella sua scuola calcio di Perpignano, dirà ai suoi allievi di ricordare il gol di Careca. Le grinfie del calcio europeo arrivano e Julio Cesar va al Brest, dove fa coppia centrale col campione del mondo Brown. In Francia avevano fallito Jairzinho e Paulo Cesar e il tedesco riesce a riscattarli. E vince una Coppa di Francia al Montpellier. Non senza grazia si adatta subito al gioco a uomo. Ma la Nazionale abbottonata di Lazaroni non lo vede più. C’è una florida generazione di difensori centrali: Mauro Galvao, Mozer e Ricardo Rocha, i tre presunti titolari. Poi Aldair, Ricardo Gomes e Andrè Cruz . Che rifila una gran punizione a Zenga in amichevole, ma non giocherà nemmeno lui. Per qualcuno, Ricardo Gomes al posto di Julio Cesar è una bestemmia: “La convocazione dei 22 per Italia ’90 ha tenuto conto prima degli aspetti politici che di quelli tecnici. Non ho pagato solo io, ma anche gente come Neto e Joao Paulo”.
Forse Julio Cesar paga la scarsa intesa con Geraldao nel sonoro 0-4 in Coppa America contro il Cile. Lazaroni gli concede un’altra chance contro l’Olanda in amichevole, ma la porta è chiusa. E Pelè s’infuria. Il paese resta freddo per una squadra che non capisce. Non capisce perchè cinque difensori, perché Dunga giochi sdraiato. Che è un modo brasiliano per disprezzare il tackle. Si esce agli ottavi contro l’Argentina. Mentre Careca scarica addosso al tecnico tutte le colpe e se ne va in vacanza nella sua fattoria di Campinas, la stampa brasiliana di Lazaroni dice: “Deu burro” (“è uscito l’asino”). Dopo un mese di report positivi dalla Francia e in assoluto silenzio, il 13 maggio 1990 Julio Cesar è intanto atterrato all’aeroporto di Torino-Caselle: è il nuovo difensore centrale della Juventus di Maifredi. La stampa locale, solitamente attenta, non se ne accorge nemmeno. E al tedesco va bene così : “Sinceramente non è che mi dispiaccia leggere un articolo su di me o pubblicata una mia foto. Soltanto vorrei non accadesse tutti i giorni”. Viene accontentato e qualcuno, come Vladimiro Caminiti, avvisterà sintomi di razzismo. Che merita ancor meno spazio .
“Forse qui molti pensano che tutti i brasiliani vivano ballando samba e bevendo caipirinha. Mica è vero. Come non è vero che tutti gli italiani suonano il mandolino o mangiano la pizza. Del Carnevale di Rio so quanto voi, l’ho visto in televisione”. La Nazionale di Bearzot, dopo “la tragedia” del Sarrià, la conosce invece quasi a memoria. Porta a Torino la fidanzata e Dona Leny. Gioca ogni tanto a biliardo, che è l’unico filo che lo tiene legato al padre. Anche se Boniperti non c’è, si prova a perpetuarne i successi. E i silenzi. Perchè Julio Cesar parla poco ed è titolare inamovibile. Non lo smuove nemmeno Galia che, anzi, ci rimette una caviglia in allenamento. Finchè Gianni Agnelli benedice l’ossimoro: “Sembra un tedesco, non un brasiliano. Eppure l’abbiamo comprato per un pezzo di pane”. Appena 250 milioni di lire. Un giocatore con la muscolatura tipica dei giocatori di colore dà molto lavoro ai massaggiatori . Ma non teme gl’infortuni. Semplicemente perché nelle mutandine tiene un “patuà”, un amuleto fatto di osso di gatto.
Dai tempi di Josè Altafini, quasi vent’anni, la Juve non prendeva un sudamericano. Guai a provare a risalire all’ultimo difensore. La Juve maifrediana ne prende cinque dal Napoli in Supercoppa. A Taranto lo snodo dell’ottimo avvio di stagione, dove la Juve perde ancora: Maifredi sacramenta e promette “Qualcuno a novembre va via. In ritiro da domani”. Il Taranto ha vinto proprio grazie a un clamoroso buco di Julio Cesar. Non partirà nessuno e a un certo punto la Juve è in testa alla classifica, imbattuta. Perde solo a Bari, dove Julio Cesar è assente. I taciturni, quando parlano, hanno lingua tagliente: Julio Cesar si fa cacciare per proteste nel derby. Assente anche col Cagliari che, incredibilmente, rimonta due gol al Delle Alpi. E a San Siro dove il Milan di Sacchi imperversa. Rientra contro il Napoli in casa e spacca in due la partita. Quando attraversa il campo lanciatissimo, costringe il portiere Galli al cartellino rosso. La Juve vince e Julio Cesar chiude in attacco.
Ma col Genoa presta il fianco a Skuhravy e Maifredi non ci gira intorno: “Abbiamo preso un gol che non puoi vedere in serie A”. Julio Cesar apprezza la (nuova) juventinità ed è strutturato per reggere l’urto. E’ lui che prova a convincere Baggio a tirare il rigore di Firenze. Le goleade contro Roma, Inter e Parma sono i fuochi fatui di una Juve che , dopo svariati lustri, scende dall’ottovolante fuori dall’Europa. E’ il momento del Trap, che esalta la visione di gioco e il tempismo nelle chiusure del tedesco. Si afferma adesso come libero naturale, disimpegni in guanti gialli e prepotenti avanzate. Ma stare accanto a Kohler e Reuter per un tedesco (nero) deve aver avuto un effetto balsamico. Coi tre (e non solo) il Trap cementa la “sua” Juve. Che è l’unica a tenere il passo del Milan di Capello. Julio Cesar segna contro la Cremonese con una sassata su punizione . Identica a quella che aveva sedato il Parma . Quella di Cremona è la partita numero 1.000 della Vecchia Signora in Campionato. Intanto è tornato anche Boniperti.
Proprio nella peggiore partita di Julio Cesar, la scia del Milan svanisce. Tre svarioni nel derby contro il Torino, come se , ogni tanto, si avvalesse della facoltà di non difendere. In quel 5 aprile ‘92, giornata elettorale decisiva, il Milan dà spettacolo contro la Samp per l’allungo che significa Scudetto. L’Avvocato Agnelli disegna così la curva dell’attenzione : “Ogni tanto Julio Cesar si sente come sulla spiaggia di Copacabana”. Ma nella finale in cui sfuma la Coppa Italia, Julio Cesar è fuori per squalifica.
La muraglia tiene anche se Trapattoni prova quella zona che Maifredi aveva abiurato. Ma Julio Cesar si rompe in un contrasto con Thern: salta cinque mesi di una squadra anonima. Non va più allo stadio nemmeno Agnelli. Per alleviare la sofferenza, Julio Cesar se ne torna a Campinas. Rientra e, durante un’altra pennichella, regala il gol all’Inter. Si riscatta subito segnando il gol-vittoria ad Ancona. Che è una piccola svolta. La Juve travolge Torino, Milan, Lazio e Fiorentina. Sprinta e vince la Coppa Uefa . Intanto c’è un nuovo tedesco, Andy Moeller. Quando Julio Cesar va via, stavolta va proprio in Germania. Anzi nella grigia Ruhr. In quel Dortmund, per qualcuno, manierato, quasi un cimitero di elefanti che corrisponderebbero agli scarti della serie A italiana. Ma che poi, nell’ordine, vince due campionati su quattro, una Supercoppa di Germania, una Champions e una Coppa Intercontinentale. E tanti saluti.
E’ il finale col botto dei trentaquattro anni. Il passaggio al Botafogo non lascia tracce. C’è un proverbio brasiliano che dice che “si torna a casa per raccontare la storia, non per continuarla”. Qualcuno ricorda un suo tiro che, timbrando la traversa, rimbalza quasi a centrocampo. Molti invece hanno proprio dimenticato Julio Cesar. E a lui va bene così.
Ernesto Consolo
Da Soccernews24.it