Qualcuno, soprattutto tra gli avversari, pensava di irriderlo chiamandolo “Marisa”. Un’allusione alla chioma bionda e fluente, ennesima riprova che dalle nostre parti la sostanza deve cedere il passo alle apparenze. Ma lui, il vichingo che svernava sui lidi lusitani e a un certo punto accettò di mangiare pallone e polenta ripartendo dalla periferia dell’impero, di appellativi e sfottò se ne fregava beatamente.
Capitano e leader in campo come ce ne sono stati pochissimi altri nella storia dell’Atalanta, Glenn Strömberg da Göteborg alla succosa prova dei fatti riuscì a guadagnarsi il rispetto e l’estasiata ammirazione di tutti. Addetti ai lavori e tifosi, che restavano a bocca spalancata di fronte a quel pennellone capace di mettersi al servizio della causa come il più umile di gregari, sacrificandosi in copertura senza mai rinunciare a fiondarsi in avanti per rilanciare l’azione.
E oggi, con il capello giusto un po’ più corto e mille interessi a cui badare da imprenditore di successo, può voltarsi a guardare il passato da calciatore privo di rimpianti. Con la certezza che il titolo di bergamasco onorario, forse, lui se lo sarebbe meritato più di chiunque non sia nato col sangue di Gioppino nelle vene.
Che nelle corde più profonde gli vibrasse una passione pura e genuina per lo sport pedestre più amato sotto la Maresana, invece, fu chiaro a tutti fin dall’inizio. Giunto nella Città dei Mille dopo che la compagine a strisce nerazzurre aveva riconquistato il palcoscenico più ambito, riemergendo da un quinquennio di purgatorio con discesa negli inferi (leggi: serie C) e ritorno, nell’estate del 1984 il nordico col numero 7 sulla schiena si presentò a quello che sarebbe rimasto il “suo” pubblico per otto rotazioni terrestri ancora. Un ottovolante di emozioni e ambizioni frustrate ad un amen dalla meta, come la favolosa cavalcata in Coppa delle Coppe con la Dea impegnata contemporaneamente a risalire dalla cadetterìa. Era il 1988: l’avventura all’ombra del Campanone per quel centrocampista tecnico e duttile, al riparo da cineserie stilistiche e pragmatico come la gente che l’aveva adottato, era solo a metà del guado.
Nedo Sonetti, un Emiliano Mondonico tenuto a battesimo nella prima vera esperienza da trampolino di lancio di una carriera in panchina da mille e una notte, Piero Frosio e Bruno Giorgi: questi i mentori di Glenn sotto le insegne della Ninfa.
Onorate con 219 presenze e 15 reti soltanto in campionato (di cui 34 e 3 in B), tante salvezze ben sopra il fatidico filo di lana, le già richiamate semifinali europee con il Mechelen e due qualificazioni Uefa consecutive. Palmarès fantasmagorico, per uno che pur di misurarsi con la provincia estrema del calcio più bello del mondo aveva abbandonato location altolocate e abbonate ai trofei.
Non mancano nemmeno quelli, in bacheca: due Coppe di Svezia e un titolo nazionale con la squadra della sua città, l’IFK Göteborg (1979 e 1982), Coppa e scudetto di Portogallo (1983-1984), la Coppa Uefa del 1982 sempre con l’IFK e Guldbollen come migliore calciatore del suo Paese nel 1985. Smessi i panni del leader sulla cotica erbosa (anche della sua Nazionale, 52 match conditi da 7 gol), non è certo finito nelle liste di mobilità.
Ai giorni nostri ha un’azienda di import-export nel ramo alimentare, una società di scommesse con sede a Londra e qualche ospitata di lusso da commentatore. Nonché un ferreo e inossidabile rapporto di collaborazione con il front office di Zingonia. Quello d’amore con la terra adottiva, del resto, non è mai venuto meno. Tanti auguri, campione. Dentro e fuori uno stadio.
Simone Fornoni