Daniele ripete sempre lo stesso movimento, si tuffa sul fianco destro, dice di non farsi male perché indossa un pantalone imbottito da portiere. Cade gioiosamente sui mattoni, prova a deviare i tiri di Vito. A ogni parata esclama «Tacconi! Parata di Tacconi…». La porta è in realtà il supporto di un’altalena colorata di arancio e blu, uno degli attrezzi del parco giochi di un condominio del quartiere San Lorenzo a Palermo.
Seduti su un gradino della guardiola del portiere, Ezio e Giuseppe litigano – figurine alla mano – sullo sponsor sulle maglie dell’Inter. Uno dice: «È Misura», l’altro replica: «Ma che dici? È At-Gar! L’ho visto io…». At-Gar, quale storpiatura di Fit-Gar. Se hai 9 anni nel 1992, nell’era pre internet, il calcio è tutto, lo sogni in tutti i modi a tutte le ore. Il calcio è, come più avanti si apprenderà dai sociologi, una modalità di occupazione del proprio tempo libero.
Poi ci sono io che palleggio e conto. Dobbiamo andare dai nonni, in realtà vorrei restarmene lì con i miei amici, ma è sabato pomeriggio e quando papà torna dal barbiere dobbiamo andare “a Capaci”, perché la casa di villeggiatura dei nonni è identificata con il nome del Comune che la ospita. In macchina, da San Lorenzo, sono circa quindici minuti. Sono riuscito a portare con me il pallone, perché lì so che mi aspetta mio cugino Roberto e potrò giocare con lui, ma fuori dal villino perché altrimenti distruggiamo le piante del nonno. “Passa correndo lungo la statale/ un autotreno carico di sale…”, papà ha messo una cassetta nell’autoradio con una canzone di De Gregori che dice queste parole. In cielo solo qualche nuvola. Palleggio e tiro: poom.
Palleggio e tiro: poooooooooooooomm. Trema tutto. Non è colpa mia. Non sono stato io. C’è troppo fumo dietro la casa dei nonni.
Salutati i nonni al volo, si inizia. Roberto, due anni più piccolo di me, si mette in porta, ovvero il cancello del villino. Ha una maglia da portiere dell’oratorio San Vincenzo, gliel’ho data io. Gli viene larghissima. Lui para, io tiro. I grandi raccomandano: «Non troppo forte», ma è facile farsi prendere e cafuddare, come si dice in dialetto palermitano. «Piano!», dicono gli adulti seduti in veranda che scrutano a distanza.
Un palleggio, stop di coscia, tiro al volo: poom è il suono emesso dal cancello nero, Roberto è stato trafitto. Uno, un altro e un altro ancora. «Devi tirare piano… il cancello…». Faccio un cenno con la mano, tutto ok. Palleggio e tiro: poom e vibrazioni metalliche. Palleggio e tiro: poom. Palleggio e tiro: poooooooooooooomm. Trema tutto. Non è colpa mia. Non sono stato io. C’è troppo fumo dietro la casa dei nonni.
Tutti ricordano cosa stavano facendo quel 23 maggio 1992. Il ricordo personale è una storia vera, scolpita nella memoria non tanto per quella sequenza di fatti che riempiva un normale pomeriggio di quel periodo, quanto per quello che è successo immediatamente dopo.
Nella strage di Capaci, attentato di stampo terroristico-mafioso compiuto da Cosa nostra il 23 maggio 1992, morirono il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. L’attentato sventrò un tratto dell’autostrada A29, alle ore 17.57, saltarono in aria tre Fiat Croma blindate. Ci furono anche 23 feriti, di cui non si è parlato molto nel corso di questi anni, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
Negli anni a seguire, lo Stato, le istituzioni, non mancarono di intitolare a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tutto ciò che gli si poteva intitolare, dall’aeroporto, alle scuole, ai campi di calcio.
Nello stesso contesto della strage di Capaci si colloca la strage di via D’Amelio, l’attentato in cui il 19 luglio seguente furono uccisi, sempre con l’esplosivo, il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l’esplosione, in gravi condizioni.
La sera di sabato 23 maggio 1992 andò in onda su Rai Uno la puntata conclusiva della trasmissione Scommettiamo che…?, non senza imbarazzi da parte del conduttore Fabrizio Frizzi costretto a leggere un comunicato nel quale, in sintesi, si diceva che lo spettacolo doveva andare avanti. Tuttavia, negli anni a seguire, lo Stato, le istituzioni, non mancarono di intitolare a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tutto ciò che gli si poteva intitolare, dall’aeroporto, alle scuole, ai campi di calcio, rendendo di fatto i due magistrati due santi laici.
L’indomani, il 24 maggio, con il primo Milan allenato da Fabio Capello già campione d’Italia, si chiudeva la Serie A. L’Italia calcistica aveva scoperto il Parma, i ricchi – ovvero Agnelli e Berlusconi – si contendevano a suon di miliardi Lentini del Torino. Mentre in Serie B, campionato a venti squadre, si giocava la trentacinquesima giornata, la sedicesima di ritorno. Il Palermo, che doveva salvarsi, era atteso in trasferta ad Avellino.
Palermo, circa 700 mila abitanti, città di facili entusiasmi e altrettanto facili depressioni, aveva fatto registrare una tiepida adesione al Palermo di quella stagione, con soli 4.664 abbonati. Si disse che la colpa era tutta di un’amichevole estiva in cui i rosanero allenati da Gianni Di Marzio, il 13 agosto 1991, avevano perso 8-0 contro il Milan. In quell’occasione, in cui però pur di vedere all’opera Gullit e Van Basten lo stadio era pieno, molti palermitani avevano perso fiducia nei confronti della squadra locale.
Il Palermo è un Giano bifronte: riesce a concludere la stagione addirittura imbattuto in casa, ma con ben 14 sconfitte (e zero vittorie) in trasferta.
Nel corso della stagione, comunque, è sempre in auge il fenomeno dei portoghesi, spettatori non paganti che in un modo o nell’altro riescono a entrare allo stadio, dando l’impressione di un attaccamento particolare alla squadra. L’attaccamento del pubblico di casa che, genericamente, i media definiscono caloroso. Desta curiosità, tra i volti nuovi, il capellone Felice Centofanti, quell’anno 28 presenze e otto reti realizzate, maglia numero 10. Centofanti si infortuna durante Palermo-Padova (2-0) del 17 maggio, la settimana precedente la partita di Avellino.
Il Palermo è un Giano bifronte: riesce a concludere la stagione addirittura imbattuto in casa, ma con ben 14 sconfitte (e zero vittorie) in trasferta. Alla vigilia della fatidica trasferta contro l’Avellino, che in quel momento è una concorrente diretta per la salvezza, è implacabile una grafica pubblicata dal Guerin Sportivo, che documenta come giocare fuori casa per il Palermo quell’anno è sinonimo di «tragedia».
Mentre il fumo di Capaci annebbia il cielo di Palermo, dal porto – con la nave delle 19 – i tifosi rosanero che hanno appena appreso della strage, partono alla volta di Avellino.
«Mentre pensavamo alla partita dell’indomani, a come sarebbe stato l’Avellino, ci giunse la notizia dell’attentato, eravamo in viaggio, restammo sgomenti, senza parole. La partita, la salvezza, passarono in secondo piano».
Sono parole di Dario Mirri, all’epoca dei fatti semplice tifoso del Palermo, oggi è il presidente del club rosanero rinato nel 2019 dopo il fallimento e ripartito dalla Serie D. Dario Mirri, quel 24 maggio 1992, era uno dei tifosi del Palermo assiepati nel settore ospiti dello stadio Partenio. Partita strana. Il Palermo va in vantaggio con Pierpaolo Bresciani, nel secondo tempo pareggia Parpiglia, al 90’ Bertuccelli segna il 2-1 per i padroni di casa. Un pallonetto di testa che batte il portiere Taglialatela, col difensore De Sensi che non riesce nell’anticipo in marcatura.
La settimana seguente, quando il Palermo ospita la Reggiana, volano sopra il cielo della Favorita palloncini tricolore con i nomi delle vittime di Capaci. I rosanero ottengono la solita vittoria casalinga.
Normale, dato l’andamento altalenante della stagione, come la sconfitta in trasferta alla penultima in casa del Cosenza. Tutto si decide dunque all’ultima giornata. Il Palermo in casa batte la Lucchese, la retrocessione matura su un altro campo. Dalle radioline il popolo rosanero apprende del risultato di Piacenza, dove il Taranto ha vinto 1-0. Il gol che decide la partita è un rigore un po’ anomalo, battuto tre volte da Ciro Muro.
Il Taranto passa, vince poi lo spareggio contro la Casertana, il Palermo torna in Serie C1 dopo appena un anno di B. Un saliscendi normale per il Palermo di quegli anni, in un contesto di partite forse combinate, come scrissero i giornali dell’epoca, anche questo abbastanza normale nelle calde giornate di fine campionato.
Normale come i disordini nel dopo partita all’esterno dello stadio della Favorita, a quei tempi quasi un festoso rito di fine stagione. Tutto abbastanza normale, tranne il rumore delle bombe.
Giovanni Tarantino