Natalino Fossati, vecchio cuore granata sì, ma anche e soprattutto grigio. Le radici anagrafiche e calcistiche infatti, non si dimenticano mai. Classe 1944, Fossati è nato a Mandrogne, è uno dei tanti prodotti di quella che fu la fiorente scuola alessandrina. Fu un terzino sinistro dinamico, valido sia in fase di copertura che negli sganciamenti in attacco, con una discreta propensione al gol.
Questo perché ai tempi delle giovanili grigie (fu scoperto da Cornara, lo stesso di Rivera) era attaccante, ma poi soprattutto grazie anche all’intenso lavoro su di lui operato da Nereo Rocco e in seguito da Edmondo Fabbri, che ne valorizzò maggiormente l’attitudine offensiva. La società granata per fargli fare esperienza lo diede in prestito al Genoa nella stagione 1963-’64, dove conobbe Gigi Meroni. Dopo solo un anno di lontananza tornò a vestire la maglia granata per formare, dalla stagione 1965-’66 – assieme a Fabrizio Poletti – una buona coppia di terzini. Con il Toro rimase fino al campionato 1973-’74 collezionando complessivamente 329 presenze (21 nelle coppe europee) e 19 gol.
“Per il Toro il derby deve sempre essere la partita della vita”. Ne è profondamente convinto. E certamente lo sarà per sempre. “Potremo anche essere ultimi in classifica, ma davanti alle maglia bianconere dobbiamo avere il dovere morale di giocare come se dovessimo disputare la finale della Coppa dei Campioni. Ce lo impone la nostra storia, lo dobbiamo al nostro popolo”. Le parole di questo ex campione riassumono meglio di un trattato che cosa significhi a Torino essere granata. “Ecco perché ho veramente provato disgusto, dopo quel derby di Coppa Italia vinto dalla Juve per ben 4-0, vedere i giocatori del Toro scambiarsi la maglia con quelli bianconeri scherzando e ridendo come se non fosse capitato nulla”.
Qual è il suo più bel ricordo dei tanti derby da lei giocati?
“Non lo scorderò mai: 26 marzo 1972, vincemmo 2-1. Nel primo tempo la Juve andò in vantaggio con Anastasi e noi pareggiammo dieci minuti dopo con Claudio Sala. Poi nella ripresa andammo in vantaggio con Agroppi e in quel suo gol ci fu molto del mio lavoro. Ma ricordo quel derby con i brividi perché, a causa dell’indisponibilità di Ferrini, io ero il capitano del Toro”.
Già, giocare con la passione e la grinta, la rabbia e lo stile di chi vince solo grazie a ciò che è e non a ciò che ha. Sempre dall’altra parte di Torino, quella “giusta”, quella di chi “lotta con onore per il simbolo del cuore”.
Dopo il Toro venne poi ceduto alla Sampdoria, ed in maglia blucerchiata disputò poche partite creando non pochi malumori nella tifoseria, furibonda nei confronti dell’allora presidente Lolli Ghetti che ne aveva avallato l’acquisto cedendo in cambio il forte difensore Nello Santin. Proseguì quindi la carriera con la Biellese e ancora l’Alessandria, proprio dove aveva incominciato.
“Ricordo che i tifosi contestavano il presidente Cavallo, che però se ne fregava delle critiche. L’allenatore era Guido Capello, a cui vennero affidati diversi giorni, mentre vennero comprati il centravanti Picco e il difensore Gardiman. Tra gli anziani c’eravamo io, l’ala Calisti, il mediano Ferrari e la punta Pandolfi. I nostri ingaggi erano veramente bassi. Pensa che a nove giornate dal termine l’Alessandria era addirittura quasi al vertice della classifica”.