Centrocampista, la prima squadra di Dario Donà (nato a Cismon del Grappa il 17 settembre 1961) è stata la Selvana, poi il Treviso. Da lì è passato al Varese, quindi per un breve periodo al Milan, poi al Vicenza. Due anni al Bologna in C1 e da lì è approdato al Verona nell’anno dello scudetto, 1984-85: 12 presenze in serie A, tutte in quell’anno magico. È passato al Catanzaro, quindi alla Reggiana e all’Ancona dove è rimasto fino al 1990. Tornato in Veneto, nel Giorgione e nel Mirano e ha concluso tra i dilettanti a 37 anni.
«Mi sono sempre preparato al dopo. Non potevo fare altro, essendo un mediocre». La sincerità, però, non è sentimento del mediocre. Donà ragiona semplice, ma non banale. È un uomo che viaggia verso i sessanta, ma il grigio, nella sua vita, è un colore come gli altri. La sfumatura di qualche cielo veneto, sotto cui ora vive da imprenditore, sotto cui, una volta, rincorreva un pallone. «Sono di Cismon del Grappa, ma ci sono stato solo nove mesi. Poi con la famiglia siamo venuti a Treviso». E a Treviso ancora vive, con la sua nuova famiglia. Quella d’origine era formata da papà Giuseppe, operaio alla De Longhi, mamma Germana casalinga, tre sorelle e un fratello. Papà e una sorella non ci sono più. Donà comincia nel grande prato della Fiera. «C’era il Luna Park più grande del Veneto, e anche il campo da calcio più grande del mondo, per noi. Palla lunga e pedalare per interi pomeriggi». Vengono da una provincia a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, tutti i protagonisti di queste storie, e se la ricordano con un po’ di nostalgia.
«Penso a quei tempi volentieri. Avevamo pochi grilli per la testa, soldi non ce n’erano. Però, guardi, io ho due figlie e le posso dire che eravamo molto più felici dei giovani d’oggi. Noi la tv l’andavamo a vedere dalle famiglie vicine. Era un modo di stare uniti, coi vicini ci si conosceva, ci si aiutava». Suo fratello – come racconta “Storie di Calcio” – gioca attaccante nel Montebelluna, Donà cerca di imitarlo. Primi calci nel Selvana. Un giorno arriva Sogliano che lo vuole portare a Varese. «Dovevo andare in collegio ma non mi andava di lasciare casa mia. Ho fatto una scelta e sono rimasto». Lo prende il Treviso. «Iniziai ad arretrare la mia posizione in campo: più arretri e più è facile giocare». Bella teoria, molta pratica, pochi studi. «Non avevo tanta voglia, mi sono fermato al terzo anno dell’Itis. Poi, dopo, ti rendi conto dei tuoi errori. Lo dico sempre a mia moglie: maledetto il giorno che ho fatto il calciatore».
Perbacco, sembra un sopravvissuto di un film di Verdone. «La verità è che siamo viziati e scopriamo la vita dopo i trent’anni. Poi, ai miei tempi, non si guadagnava abbastanza da vivere di rendita. Un nazionale, a Verona, prendeva 150 milioni». Dario Donà dunque resta a Treviso, ma poi, a Varese, ci finisce comunque. «E feci pure un buon campionato. Giocai una bella partita con il Milan e mi presero». Succede ancora adesso, a vent’anni di distanza. Però, al Milan, resta poco. «Non ci stavo bene, proprio per niente. Così sono andato via dal ritiro». Scappato? «Quasi. Inventai una scusa: mamma malata. Dieci giorni di fuga. Quando tornai Radice era furibondo. Dissi a Vitali: trovatemi una squadra, anche di B, di C. Ero un impulsivo».
Un’immagine che contrasta con quella dell’uomo in grigio. «Diciamo, allora, che ero limitato caratterialmente. Sono sempre stato consapevole che l’avrei pagata, però ho mollato il Milan e sono andato a Vicenza. Poi a Bologna con Cadè. Con Cadè sono stato anche ad Ancona, dopo. Cinque anni in tutto. È la persona che, del calcio, ricordo con più affetto: semplice, squisito, colto». A Bologna conquista la promozione dalla C1 alla B. «In un certo senso ero in anticipo sui tempi: preferivo squadre di serie minori ma con cui si avesse un incentivo». Arriva a Verona al momento giusto. «Eravamo 17 e non s’è mai fatto male nessuno. Bravi ragazzi, gente umile, stranieri compresi. C’era un rapporto di fiducia con l’allenatore. Ogni tanto Bagnoli faceva allenare la squadra a Volpati, il dottore. Osvaldo metteva tutti a proprio agio e mise tutti al posto giusto».
Dodici presenze, nessun gol. «Le uniche due partite intere le ho fatte con Inter e Milan. Entravo nel secondo tempo, solitamente marcavo la mezza punta avversaria, Platini, Dirceu».
Arriva lo scudetto, ma non il posto da titolare. «Sacchetti doveva andar via e invece rimase. Io volevo giocare. Così sono finito a Catanzaro. Sì, lo so cosa pensa, non vuole andare a Varese, scappa dal Milan e poi finisce a Catanzaro. A livello tecnico non ero male, ma mi è sempre mancata la molla. Ho sempre invidiato i colleghi del Sud: avevano il fuoco dentro. Io, per ambientarmi, facevo molta fatica». Se capiti nel posto sbagliato al momento sbagliato è ancora più difficile. «Un anno burrascoso. A Natale eravamo quarti ma finimmo col retrocedere. Ci tiravano i sassi, spararono al presidente». Donà risale la penisola, fa tappa a Reggio Emilia, poi ad Ancona. «Bel posto, ho ancora tanti amici. Io e mia moglie volevamo stabilirci laggiù».
In Veneto, nella galassia dilettanti, gli ultimi calci. «Ho allenato anche un paio d’anni in promozione, poi basta. Con mia sorella avevo una fabbrica di scarpe ma non è andata bene. Mio suocero ha un azienda di trasporti, mi sono incanalato nella stessa direzione e ora ho una ditta mia. La sa una cosa? Mi sembra finalmente di lavorare. Trovo più soddisfazione in quello che faccio ora. Nel ’90 Pasqualin mi voleva prendere con lui, ma rifiutai. Conosco i miei limiti. Mi sono messo da parte». Il pallone in soffitta. O quasi. «Se guardo una partita in tv, mi addormento. Meglio il calcio estero. Del resto non ho tempo. Cinque giorni lavoro, sabato e domenica ho 2.500 metri quadri di giardino da tenere a posto. Vado in bici». Non una vita mediocre, ma una vita normale. Quella che vorremmo tutti, la più difficile da conquistare.