Pasolini: “Una banda di fascisti vince lo scudetto”
Mag 11, 2024

Quando una squadra vince qualcosa, subito si parla di “gruppo”, si straparla di “amicizia”, si dà immancabilmente merito della conquista alla “serenità dell’ambiente”.
Il calcio, spesso, ci racconta storie diverse, storie di allenatori “attaccati” agli armadietti, di calciatori che a malapena si rivolgono la parola o si passano la palla. Nessuna di queste storie, tuttavia, è paragonabile a quella della Lazio che, nei primi anni settanta, conquistò uno scudetto, giocando veramente contro tutti, anche contro sè stessa. E vinse.

La Lazio e lo scudetto al termine della stagione 1973-’74

Questa ricostruzione vuole essere un atto di ammenda nei confronti di quella squadra che non ricevette a suo tempo, almeno dal pubblico neutrale, il giusto riconoscimento ai propri meriti.

L’inizio della storia

Il campionato 1973-’74 avrebbe potuto passare alla storia per molti motivi. Il più probabile, alla vigilia, era considerato il ritorno di Helenio Herrera all’Inter, dopo una permanenza, invero poco ricca di soddisfazioni, alla Roma. “Il Mago”, tornato all’Inter, è una delle cose da ricordare di quel campionato, per molti versi indimenticabile.
Proprio l’Inter, un’Inter assetata di rivincite dopo due anni da comprimaria, è assieme al Milan , beffato nella “fatal Verona” ed alla Juventus Campione d’Italia per la seconda volta consecutiva, una delle favorite per lo scudetto.
L’altra è la Lazio, che uno scudetto clamoroso, direttamente l’anno della promozione dalla Serie B, l’ha appena sfiorato.Facciamo un salto indietro. All’ultima giornata, appaiata alla Juve, un punto sotto al Milan, la Lazio gioca al San Paolo, ospite di un Napoli a dir poco senza stimoli.

Il tecnico laziale Tommaso Maestrelli

Alla fine del primo tempo si sparge sugli spalti ed in campo la notizia che il Milan sta perdendo nettamente a Verona e che, all’Olimpico, anche la Juve è in svantaggio.
Nell’intervallo qualche laziale che conta ,e che ha credito a Napoli, fa capolino nello spogliatoio azzurro. Le malelingue dicono anche che abbia deleghe per un’offerta interessante, ma i napoletani rispondono che qualcun altro ha già pensato a contattarli ed a motivarne l’impegno. La Lazio perde quella partita e quello scudetto e non sono tantissimi quelli che l’accreditano della

“Una banda di fascisti…”

Quella squadra è la creatura di Tommaso Maestrelli, un allenatore giovane e dalla mentalità aperta alle novità.
Qualche anno prima ha vissuto un’esperienza non proprio fortunata a Foggia, la sua squadra è retrocessa in B giocando bene, ma è pur sempre retrocessa. Sono cose che in Italia si pagano.
Anche la sua Lazio gioca bene, eppure, eccezion fatta per un centravanti italo-gallese che si è già segnalato come una forza della natura tanto da arrivare in Nazionale giocando in Serie B, Giorgio Chinaglia, gli altri non sono calciatori dai nomi capaci di far sognare. La squadra è stata assemblata con i soldi di Umberto Lenzini, una sorta di Sensi “lazziale”.
Gli investimenti del “Sor Umberto” sono oculati, di certo non si sciala.
Il portiere si chiama Felice Pulici, ha giocato nel Novara, ma non è fra quelli che eccellono nel ruolo, secondo molti sarebbe addirittura meglio il suo vice, Moriggi. Terzini sono Petrelli, ex-romanista, e Martini, autentica rivelazione nel ruolo di fluidificante, ritenuto al più un buon calciatore, ma “uomo-forte” dello spogliatoio.
Libero gioca un napoletano dal cognome inglese, ereditato dal padre; si chiama Giuseppe Wilson, ma lo chiamano Pino. E’ stato nell’ultimo campionato il migliore nel suo ruolo, ma la sua statura lo penalizza molto nel gioco aereo e lo costringe a puntare sul tempismo e sul senso della posizione.

Luigi Martini

Fra gli addetti ai lavori suscita più perplessità che entusiasmi, anche per la caratteristica, all’epoca poco comune, di giocare con le lenti a contatto.
Wilson, tuttavia, è una figura carismatica nella squadra, spesso funge da allenatore in campo e comanda il gioco. Ed è amico di Chinaglia col quale ha giocato in Serie C all’Internapoli.
Stopper è il giovane Oddi, romano di borgata.Robusto, un corazziere. La sua prestanza fisica gli permette di supplire a qualche deficienza tecnica e la sua intesa, quasi simbiotica, con Wilson lo aiuta molto.
A centrocampo la squadra poggia su un quadrilatero perfettamente dimensionato. Due stantuffi, Nanni e Re Cecconi, un regista vero, forse l’ultimo nel suo ruolo, Frustalupi, e un tornante mancino ricco di estro e di fantasia, un autentico fuoriclasse in potenza: il giovanissimo D’Amico.
Di punta, accanto a Chinaglia, autentico trascinatore della squadra, gioca un’ala guizzante e veloce, uno specialista nelle diversioni: Garlaschelli. Tanto Chinaglia è dirompente, quanto Garlaschelli è aggirante.
I due, tanto per essere chiari, non si hanno reciprocamente in simpatia. L’uno punta la porta di potenza pura, da autentico ariete, l’altro è pronto a colpire sulle palle morte, sui rinvii sporchi cui le difese, spesso, sono costrette per arginare le incursioni del poderoso compagno di reparto. I due si integrano a meraviglia, ma fuori dal campo non mancano i momenti di tensione.
Non sono tempi di “panchine lunghe”, pertanto le riserve Polentes, Facco, Inselvini, Manservisi e Franzoni, in pratica uno per reparto, sono ritenute sufficienti. Nonostante tutto, però, nessuno indica la Lazio come favorita per lo scudetto. E’ un bene.
La prima svolta arriva in Coppa Uefa, ancora prima che il campionato abbia inizio. Opposti ai modesti svizzeri del Sion, i biancazzurri, trascinati da un Chinaglia entusiasmante, vincono nettamente la gara d’andata: 3-0 con una tripletta del bomber. Al ritorno, tuttavia, ecco la “lazietta” che non t’aspetti. Gli elvetici vincono 3-1 e la Lazio si salva solo grazie ad un gol di Garlaschelli segnato in avvio.
E’ un brusco risveglio, la squadra sembra sfilacciarsi alla prima difficoltà, incapace di gestirsi contro avversari più avanti nella preparazione. Oltretutto lo spogliatoio già diviso si spacca dopo una furibonda lite fra Martini e Chinaglia.
Maestrelli fa tesoro dell’esperienza che impone un bagno di umiltà al gruppo e all’ambiente, ma soprattutto capisce che lo scudetto verrà conquistato solo se il carattere della squadra troverà sbocchi positivi. Il problema, in altri termini non è tecnico, né tattico, ma ambientale. In campo, infatti, i problemi sono facilmente risolvibili. Il gioco della Lazio trova piano, piano continuità, conferma nel movimento corale e nel ritmo le sue caratteristiche principali, il suo modo di stare in campo ricorda l’Ajax dominatore europeo anche se le individualità sono di caratura inferiore.

Il capitano Pino Wilson


La Lazio è equilibrata in ogni reparto, l’utilizzo di D’Amico al posto di Manservisi, è la quadratura del cerchio. Il ragazzo, più versatile del titolare dell’anno prima, diventa l’uomo che crea la superiorità numerica in attacco, il fantasista che salta l’avversario, l’uomo dell’assist vincente. Con lui la squadra perde in linearità e guadagna in fantasia.
Il problema arriva nello spogliatoio, nella feroce rivalità fra i clan. Il problema, è , paradossalmente il miglior giocatore , la sua gestione in un gruppo in cui vi sono altri caratteri forti. Il dominatore, il terminale di ogni schema offensivo, ma anche il problema è Giorgio Chinaglia.
Un’infanzia difficile, vissuta fra le colline di detriti di carbone, a Swansea nel Galles dove l’Italia vive nei ricordi degli emigranti e si identifica in John Charles, regala un ragazzone determinato e potente. Testardo, prepotente, ma anche coinvolgente: un leader. Arrivato in Italia, ha giocato nell’Internapoli, in serie C, dove è stato notato dalla Lazio che lo ha preso e lo ha lanciato in prima squadra dove si è imposto grazie ai suoi gol, l’unica cosa che riesce a farlo sopportare. A ventisei anni, Giorgio Chinaglia, è nel pieno della sua maturità di atleta e di capo, è un despota uno che o si segue o si odia.
Lo chiamano “il gobbo” per la sua complessione fisica, con la testa curiosamente incassata nelle spalle ricurve, quasi fosse priva di collo, il torace ipertrofico rispetto alla vita. Le gambe, lunghe e poderose, assieme alle braccia forse troppo spioventi dalle spalle, non giovano all’eleganza del suo aspetto fisico, ma la funzionalità di quella macchina di ossa e muscoli nella dinamica del gioco del calcio è impressionante. In progressione è imbattibile, possiede tiro rispettabile anche dalla distanza, senso acrobatico, la sua forza d’urto è devastante. Oltretutto non conosce la paura.
Si esalta nelle condizioni di tifo avverso, più si sente odiato, più si carica. E’ il risultato degli anni vissuti da figlio di emigranti che non sono passati senza lasciare un segno indelebile.
Tommaso Maestrelli ha saputo conquistarne la fiducia, smussarne un carattere impossibile, rispettarne i silenzi e le tensioni che in passato gli erano costate parecchio con allenatori meno disponibili a capirne il carattere spigoloso.
Chinaglia ripaga la fiducia e la comprensione del tecnico a suon di gol che lo rendono sopportabile anche ai compagni. Quella Lazio, tuttavia, è anche la storia di uno spogliatoio spaccato, una storia di pugni in allenamento, di porte sfondate a calci, di risse sotto la doccia. Una storia di pistole, di spari contro i lampioni nel ritiro dell’albergo.
Leggende, secondo alcuni.Realtà secondo altri. Esagerazioni, ma con un fondo di verità, la versione più probabile e gettonata.
Maestrelli capisce di avere un tesoro fra le mani, un’occasione che capita, se hai fortuna, una volta nella vita ed è bravo a capire di doverla difendere soprattutto dagli eccessi che, ben convogliati, ne determinano le caratteristiche migliori. Il tecnico arriva a far allenare la “rosa” in due gruppi per evitare che “i capataz” trascendano.
Uno spogliatoio fa capo a Chinaglia e Wilson, amici dai tempi dell’Internapoli, l’altro a Martini e Re Cecconi ex commilitoni . Si parla anche di politica. “E’ una squadra di fascisti” – si dice in giro.

Luciano Re Cecconi

Gigi Martini, allora, dichiara pubblicamente di votare Msi. Anche Re Cecconi e Petrelli hanno fama di simpatizzanti dell’estrema destra, lo stesso Chinaglia non fa mistero della sua simpatia per Giorgio Almirante.
Dietro di loro anche gli altri si incolonnano, i saluti romani spesso spiccano nelle foto della Curva Nord, secondo i ben informati molti dei calciatori della Lazio giocano con le catenine ornate di croce celtica.
Sono palesi esagerazioni, la stampa di sinistra, non sempre equidistante, tende a strumentalizzare certi comportamenti per colorare di una fede politica la squadra romana.
Eppure la Lazio è “collettivista” al massimo, i premi partita vengono rigorosamente divisi per l’intera “rosa”, non solo fra chi ha giocato e chi è andato in panchina, come accade in molte altre squadre.
Raccontano anche che i calciatori si tassino per rendere più corposa la busta paga della lavandaia, del magazziniere, del guardiano di Tor di Quinto. Leggende ? Può essere, ma c’è chi lo ha scritto e non c’è chi lo abbia smentito. Ma la Lazio ha altre stranezze. Tutti girano armati, spesso nei lunghi ritiri in un albergo dell’estrema periferia romana ingannano il tempo col tiro a segno, ma si racconta anche di qualche scherzo pericoloso. Una sera, prima di un derby decisivo, gli ultras giallorossi decidono di “far caciara” sotto le finestre dell’hotel che ospita la Lazio, prima che il direttore chiami i rinforzi, qualcuno spara ai lampioni del viale d’accesso. Un’altra leggenda? Può essere.
Fra le certezze c’è il fatto che Martini e Re Cecconi prendono il brevetto di paracadutismo, la società lascia fare nonostante sia un passatempo discutibile per un calciatore professionista. Discutibile in quanto rischioso.

L’anno buono

Un’altra caratteristica unica di quella squadra irripetibile sono le partitelle di allenamento, nelle quali nessuno vuol perdere e che il povero Maestrelli vive con angoscia. Ogni tackle può portare all’infortunio, perchè si gioca undici contro undici e la gamba non la toglie mai nessuno. “Peggio che in partita” perché “da ‘quelli’ non si può perdere”. Mai.
Anni dopo Borgo, leggendario capitano della Pistoiese e Primavera della Lazio ai tempi dello scudetto, racconterà di aver spesso avuto paura durante quelle sfide interminabili.
La spaccatura fra i due clan è infatti insanabile, Martini in particolare non sopporta gli atteggiamenti dispotici di Chinaglia ed il venerdì la partitella è spesso l’occasione per la resa dei conti. Qualcuno indossa i parastinchi in quell’occasione anche se ne fa a meno nelle partite di campionato. La Lazio è tutto questo, pistole, pugni, bottiglie rotte, calcioni in allenamento. Ma la domenica, spesso, è puro spettacolo.
Quelle tensioni, quella rabbia si fondono allora in agonismo, la squadra diventa monolitica, le scazzottate, le bottiglie rotte, brandite minacciosamente per farsi le proprie ragioni, sono lasciate fuori dal campo e la domenica giocano tutti per lo stesso scopo: vincere. E’ un’orchestra che ormai conosce alla perfezione lo spartito. Alla terza giornata, la prima svolta. A Torino, ospiti della Juventus, i biancazzurri passano in vantaggio con Chinaglia e sembrano in grado di vincere in bellezza la terza partita consecutiva e quindi tentare la prima fuga. Poi, nella ripresa, il crollo.

Giorgio Chinaglia

La Juve segna tre volte e c’è chi parla, dopo, negli spogliatoi, di gente sbattuta contro gli armadietti da un Chinaglia letteralmente furibondo.
E’ un momento difficile; la squadra biancazzurra inanella tre pareggi di fila, due all’Olimpico.
La vetta sembra allontanarsi, ma, mentre il campionato snoda le sue spire, la Lazio trova coraggio e continuità. Maestrelli amministra le tensioni; la squadra supera i suoi eccessi se non con la disciplina, con la convinzione, smisurata, nei suoi mezzi.
Frustalupi detta i ritmi e spesso li rallenta per evitare che la frenesia porti la squadra a scoprirsi troppo e pagare il suo compiacimento nel bello, Re Cecconi e Nanni garantiscono corsa e soluzioni balistiche quando l’attacco viene imbavagliato. Accade col Milan, quando Re Cecconi coglie il gol della vittoria all’ultimo assalto. E’ l’undicesima giornata, la Lazio si conferma capolista, una posizione raggiunta in coabitazione quattordici giorni prima, e in solitario la settimana precedente. Non lascerà più lo scettro del primato, fino alla fine.

Ipswich

In quelle prime giornate, tuttavia si compie il destino di quella squadra grande e strampalata. Al secondo turno di Coppa Uefa, i biancazzurri sono opposti ad una squadra inglese di secondo piano, l’Ipswich Town.
La prima gara si gioca in Inghilterra, e si conclude con un disastro. In meno di un’ora una Lazio irriconoscibile, che ha snaturato il suo gioco con l’utilizzo del terzino Petrelli al posto dell’ala Manservisi o del fantasista D’Amico, incassa quattro reti a zero, tutte segnate dall’interno Whymark. Il grave, tuttavia, accade nella gara di ritorno, caricata di significati anche extracalcistici. In un ambiente surriscaldato la Lazio mette in campo una rabbia inutile, quanto poco opportuna, visto il risultato dell’andata.

La guerriglia dopo Lazio-Ipswich


Dopo meno di mezz’ora, i biancazzurri sono sul 2-0, e l’entusiasmo per l’incredibile possibilità di una rimonta incendia gli animi, la partita diventa una battaglia senza esclusione di colpi. Quando l’arbitro olandese Van der Kroft concede un rigore agli inglesi, si scatena il finimondo.
Sulle tribune si scatena una caccia all’uomo e la bandiera inglese, ospitata su uno dei pennoni dell’Olimpico viene data alle fiamme. La partita continua. Chinaglia, letteralmente scatenato segna altre due volte, ma la gara si chiude su un inutile 4-2 per la Lazio. L’Uefa non avrà la mano tenera con la Lazio: squalifica per tre anni , poi ridotta ad un anno solo, da tutte le manifestazioni europee. In campionato, invece, le cose vanno per il meglio.
Con D’Amico titolare inamovibile, la Lazio diventa Campione d’inverno con tre punti sulla Juve, la Fiorentina ed il Napoli, nonostante perda Re Cecconi per un infortunio che lo terrà lontano a lungo dai campi di calcio.

I banditi e i campioni

L’inizio del girone di ritorno è però molto tribolato. A Marassi, un gol di Maraschi ed una prestazione molto sofferta condannano la Lazio alla sconfitta, quanto mai inopportuna in quanto arriva a soli sette giorni dalla sfida scudetto contro la Juve che si è avvicinata a due soli punti.
All’Olimpico, quel 17 febbraio 1974, la Lazio sfodera una delle sue partite più belle. In meno di mezz’ora la Juve è alle corde, Garlaschelli e Chinaglia portano la Lazio sul 2-0- Sembra fatta, ma il signor Panzino di Catanzaro, arbitro della partita, sale al proscenio. Nei primi dieci minuti della ripresa concede due rigori ai bianconeri, sul primo, calciato da Cuccureddu, Felice Pulici compie un miracolo, ma sul secondo Anastasi accorcia le distanze. La Juve torna in partita con oltre mezz’ora da giocare. Dieci minuti dopo, tuttavia, l’arbitro concede un rigore anche alla Lazio che Chinaglia, dopo aver conquistato con mestiere, trasforma con rabbia.
Sarà la vittoria decisiva, tipica di una squadra senza mezze misure. Altra pietra miliare il derby di ritorno: 2-1 sofferto con la Roma in vantaggio e il punteggio ribaltato in cinque ruggenti minuti con una magia di D’Amico ed un rigore di Chinaglia che, quel giorno, inventa la sua “griffe”: l’indice della mano destra mostrato alla Curva Sud in un gesto di sfida.


La domenica dopo, tre reti di un Chinaglia cosmico al San Paolo rintuzzano l’ultimo assalto del Napoli e tengono a distanza di sicurezza anche la Juve che non molla. Da qualche domenica è tornato Re Cecconi, ma la squadra appare stanca, soprattutto c’è chi pensa che quella gabbia di matti stia per cedere dal punto di vista dei nervi.
Emblematica la venticinquesima giornata.La Lazio riceve il Verona all’Olimpico e va subito in vantaggio. Sembra fatta, ma accade l’incredibile. Zigoni, che già l’anno prima ha segnato un potenziale gol guastafeste “scusandosi” con l’Olimpico, pareggia e mentre sta per finire il primo tempo Oddi, il borgataro Oddi, il “lazziale” Oddi, mette a segno il più classico degli autogol.
Sull’Olimpico cade il gelo. Chinaglia se la prende con tutti, con Nanni rasenta lo scontro fisico nel tunnel, e molti già prevedono guai nel chiuso dello spogliatoio. Ma sulla porta trovano Maestrelli che li…rimanda tutti in campo.
La Lazio, in pratica non fa l’intervallo. Si dispone sul campo, ogni calciatore al suo posto, e aspetta.
Il pubblico, dapprima è sorpreso, poi comincia ad incitare la squadra. Chinaglia sfoga la sua rabbia prendendo a calci il pallone anziché i compagni. Quando il Verona, sorpreso, rientra in campo l’Olimpico è una bolgia. I veneti sono letteralmente travolti, in mezz’ora scarsa il punteggio è ribaltato : 4-2 per la Lazio.

Il presidente Umberto Lenzini e i tifosi

“Grazie Roma…”

La giornata realmente decisiva è, tuttavia, la ventottesima. Il giorno dopo il venticinquesimo anniversario di Superga, la Lazio sfida il Toro che la batte ancora, come aveva fatto all’andata.
Paolo Pulici, scatenato, segna una splendida doppietta nel primo tempo, la Lazio lotta come può, ma è sotto di un gol a venti minuti dalla fine. Può essere la svolta.
All’Olimpico, infatti, la Juve, avversaria irriducibile, ha raggiunto il pareggio ad inizio ripresa ed attacca a pieno organico. Sembra di rivedere un film già visto, quello dell’ultima giornata dell’anno precedente con la Juve che vince all’Olimpico e si prende lo scudetto. Stavolta, tuttavia, il finale è diverso.
A quindici minuti dalla fine, Pierino Prati, nuovo “Re di Roma”, batte Dino Zoff ed inchioda la Juve alla sconfitta. E’ la svolta definitiva.
La settimana dopo la Lazio ospita all’Olimpico il Foggia, in piena lotta per non retrocedere. E’ una partita dura, cattiva, violenta anche.
Quel giorno, è il 12 maggio 1974, si vota per il referendum sul divorzio. Il risultato, all’Olimpico, non si sblocca. Al quarto d’ora della ripresa Garlaschelli, finalmente, conquista un discutibile rigore. Per i foggiani si è tuffato, sono letteralmente inviperiti, volano spintoni e parole grosse. Quando la voce di Enrico Ameri interrompe la cronaca di un collega di “Tutto il Calcio minuto per minuto” per dare l’annuncio, l’Olimpico è un acquario. Chinaglia sul dischetto prende la rincorsa, non calcia benissimo, ma il portiere foggiano, Trentini si chiama, è battuto lo stesso.
Chinaglia accomoda con cura il pallone sul dischetto. Attorno a lui, l’Olimpico trattiene il respiro…

Il rigore dello scudetto

Chinaglia sta per calciare il rigore
La rete che vale lo scudetto

In panchina, Tommaso Maestrelli, resta seduto, mentre nessuno degli altri dieci “lazziali”, trova la forza di guardare verso la porta foggiana. Quando Chinaglia comincia la rincorsa il silenzio diventa assoluto, poi il tiro… Il rigore dello scudetto … il gol e la festa può cominciare …


Ancora sofferenza fino alla fine: Garlaschelli, picchiato dai foggiani in cerca di vendetta, reagisce e l’arbitro lo espelle, Martini si è fratturato la clavicola. La Lazio in dieci resiste, qualche brivido poi è scudetto. Così una squadra costituita da para’ e da pistoleri, un gruppo così diviso da costringere l’allenatore a far spogliare i due clan in due spogliatoi diversi per evitare il “contatto”, quella squadra che fra gli altri anche Pasolini definirà senza mezzi termini “una banda di fascisti”, vince lo scudetto.
Mai una squadra ha avuto contro l’intera opinione pubblica come la Lazio di Chinaglia, Martini e Re Cecconi. Non ricordo un simile astio, altrettanta prevenzione, nei confronti di undici atleti come contro i biancazzurri verso la conquista del tricolore.
Parliamo di squadra, non di società, perché la Lazio del primo scudetto era principalmente una squadra di uomini, di volti, di persone fisiche, non uno stemma, non un sodalizio. Erano quegli undici, quella “sporca dozzina”.
La Lazio del primo scudetto erano Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico. Ed era soprattutto e sopra tutti, Tommaso Maestrelli, un allenatore cui la sfortuna ha negato molto.

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