La prima partita del Trofeo Benefico Lombardo si giocò il 31 dicembre 1944, ultimo capodanno del conflitto, il più duro forse. Era Como-Milano e finì 3-1 per i padroni di casa. Quel giorno, non lontano dallo stadio Sinigaglia, a Barzio, nel Lecchese, quindici partigiani furono messi al muro e uccisi dai fascisti. A leggere i bollettini di quella settimana si scopre pure che Budapest era stata da poco liberata dall’Armata Rossa mentre sulle Ardenne si stava combattendo una battaglia che avrebbe potuto ribaltare le sorti della guerra dopo che la Wehrmacht attaccò a sorpresa lo schieramento alleato. L’ultima partita del Trofeo fu sempre allo stadio Sinigaglia e si disputò il 26 settembre 1945: fu ancora il Como a vincere, liquidando il Novara per 2-1. Proprio il giorno prima si era insediata la Consulta nazionale, la prima assemblea legislativa italiana, non elettiva, solo provvisoria, che farà le veci del Parlamento in attesa del voto del 2 giugno per il referendum e l’Assemblea costituente.
Ma le date delle uccisioni dei partigiani, delle grandi battaglie e dei momenti epocali della nostra storia repubblicana paiono scorrere senza intaccare gli appuntamenti in calendario al Trofeo Lombardo, un campionato regionale che vanta un ineguagliato record calcistico, se così si può definirlo: comincia infatti al tempo della Repubblica Sociale di Salò e termina pochi mesi dopo la Liberazione. Ad aggiudicarselo è il Como e le strepitose foto raccolte nel volume storico Como 1907-2007 – poderosa e avvincente pubblicazione di circa 800 pagine – raccontano di partite intense che si disputarono proprio su quelle sponde e in quei giorni nel Lario dove il Ventennio fascista ha trovato la sua tomba. Per dire: il 22 aprile 1945 c’è Como-Varese che finisce 4-2.
Un’istantanea ritrae la squadra di casa – con i calciatori accosciati e in piedi attorno al presidente Luigi Colombo – sul vicinissimo campo di Solzago. “Si gioca qui perché al Sinigaglia non si può” spiega l’autore del libro, il ricercatore Enrico Levrini che divide i suoi appassionati studi e approfondimenti tra storia e pallone. Il prato verde è infatti diventato “una specie di grosso parcheggio per i panzer tedeschi e l’uso esclusivo è solo per le loro manovre”. I volti dei calciatori sono sorridenti e fa una certa impressione immaginare che quattro giorni dopo proprio qui, nella città in riva al lago, sostandovi diverse ore, arriverà Mussolini che la sera del 25 aprile aveva giocato l’ultima carta della disperata fuga da Milano.
Uno dei calciatori, il goleador Franco Pesenti — di Tremezzo e per questo soprannominato il Tremezzina —, poliziotto, incontra il Duce in Prefettura a Como, la mattina del 26. “Ero di servizio quando apparve Mussolini – è lo strepitoso ricordo affidato a Levrini – che scese dall’automobile. Noi non lo aspettavamo, non ci avevano avvisati e rimanemmo sorpresi”. Il Duce era “spaventato, ma lo ero anche io che lo vedevo per la prima volta. Mi ricordo che siamo rimasti a parlare nel cortile, prima che partisse per Dongo. Era molto confuso, mi chiese alcune informazioni sulle strade del Comasco”. Il capo del fascismo rivelò al Tremezzina “che voleva andare in Svizzera ma poi i gerarchi lo convinsero a dirigersi verso la Valtellina”. E ancora: “Non aveva alcuna valigia o borsa con sé; era tutto dentro l’auto”.
Altra foto di gruppo, altra partita ravvicinata, però un’altra Italia: il Como strapazza in casa il Pavia per 2-0 e s’invola verso la testa della classifica. Ma siamo al 31 maggio, la guerra è finita: Mussolini è stato fucilato assieme a Claretta nella vicina Giulino di Mezzegra e i loro cadaveri sono stati esposti al ludibrio della macelleria messicana di piazzale Loreto. Qui a Como hanno sempre detto che a sparare il colpo mortale al dittatore sarebbe stato – ma sebbene accreditata da valenti storici prendiamo quest’ipotesi con le molle, visto l’incalcolabile numero di ricostruzioni – Michele Moretti, nome di battaglia Pietro Gatti, commissario politico della 52ª brigata Garibaldi, più nota come la Luigi Clerici, che operava sull’Altolago. In qualche modo la sua storia incrocia poderosamente quella del Trofeo Lombardo. Operaio, sino a qualche anno prima il partigiano aveva giocato nella Comense, il primo nome dell’attuale Como Calcio. Figlio di sindacalisti, era un terzino roccioso, risoluto e sbrigativo come probabilmente doveva esserlo pure nella vita.
Un’altra foto incredibile scovata da quel segugio di Levrini lo ritrae al Sinigaglia, durante un incontro del campionato di Seconda divisione, l’attuale B. Nell’immagine ingiallita -risalente al campionato di Prima divisione, l’attuale Serie C, del 1930-‘31 – si vede la Comense schierata in mezzo al campo prima del fischio d’inizio. Tutti i giocatori salutano il pubblico con il braccio teso – era diventato da poco obbligatorio – a parte Pietro Gatti, terzo da sinistra, che lo lascia, con il volto severo e squadrato (che pare scolpito nel granito come quello di Tarcisio Burgnich) visibilmente abbassato, accostato al busto. Dopo che Moretti liquida Mussolini, a Como convergono i giornalisti di mezzo mondo, cercano scoop sulle ultime frasi di Benito e della sua amante, vogliono sapere della sventagliata finale di mitra, tratteggiano avventurosi retroscena sulla sparizione dell’oro di Dongo che sta già avendo – sebbene nessuno lo abbia ancora chiaro – un corollario di morti misteriose tra i partigiani che ne custodivano i segreti sulla detenzione e sulla destinazione.
è del campionato di Prima divisione 1930-’31
La marcia del Como Calcio prosegue nel frattempo inesorabile: batte il Milano all’Arena per 4-1, a giugno regola Meda, Legnano, Ambrosiana-Inter e Lecco. Gol e condanne a morte paiono andare di pari passo. Nelle città della Brianza che ospitano gli stadi – le foto ci dicono che gli spalti sono sempre affollati di tifosi – si stanno infatti moltiplicando le esecuzioni sommarie dei fascisti, circa 500 alla fine del 1948, una cifra fornita dallo storico e giornalista missino Giorgio Pisanò e poi sostanzialmente presa per buona dai massimi studiosi di Salò. Va detto pure che un altro dei bomber del Como non è esattamente un calciatore qualunque: si chiama Annibale Frossi, i lettori più anziani del Corriere della Sera lo ricorderanno certamente come apprezzatissimo commentatore di calcio ma prima di quest’esperienza giornalistica è stato tanto, tanto altro e in primis medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1936.
Il commissario unico Vittorio Pozzo – che non può convocare gli eroi del mondiale 1934 perché sono tutti professionisti – lo va a pescare tra i dilettanti e lui gli racconta che, sebbene si stia per laureare in legge, ai Giochi vuole proprio esserci. La fiducia di Pozzo se la merita tutta perché nella marcia trionfale verso la vittoria all’Olympiastadion di Berlino segna una valanga di gol. Frossi dopo la guerra sarà anche un apprezzato tecnico, diventando il teorico dello “0-0 risultato perfetto, perché vuol dire che difesa e attacco si sono annullati”. Dopo queste parole Gianni Brera, di cui l’attaccante è fraterno amico, lo indicherà sempre come il Dottor Sottile contrapponendolo, tra ironia e sarcasmo, al Dottor Pedata (copyright sempre breriano), ovvero Fulvio Bernardini, leggenda, per nulla “catenacciara” e tutta votata all’attacco, del calcio azzurro dopo aver vinto gli scudetti con la Fiorentina e il Bologna.
Con il Como, Annibale giocò “probabilmente perché era sfollato qui vicino, a Brunate, disputando alcune partite” ricorda Levrini che squaderna i tabellini con le formazioni trovate negli archivi della squadra e sui quotidiani la Provincia e l’Ordine. “Si limitò ad affrontare l’Ambrosiana Inter e il Milano – i nomi “italianizzati”, per volontà del fascismo, dell’Inter e del Milan – e non fece parte della formazione che nell’ultima partita schiantò il Novara dove giocava un certo signor Silvio Piola, allora 33enne, campione del mondo nel 1938, che chiuse la carriera con la squadra piemontese”.
Di quel campionato sappiamo che furono disputate 111 partite in tutto, che vide la partecipazione di squadre importanti coinvolte per raccogliere soldi destinati a sfollati e famiglie in difficoltà, che fu interrotto qui e là da qualche nevicata ma non certo, come abbiamo visto, dal conflitto. Sappiamo anche che Piola fu tra l’altro capocannoniere con 20 gol. “Si trattò di un torneo strano – è ancora il racconto fatto a Levrini dal Tremezzina, tra l’altro soldato in grigioverde sopravvissuto alla campagna di Russia -. Alcuni giocatori vennero al Como per non essere inviati al fronte. C’era un accordo tra il presidente della squadra e il federale di Como per arruolare tutti i giocatori nella polizia locale e non farli partire per la guerra”.
Accosciati: Ganelli II, U. Guarnieri, Toppan, Arcari IV
(dal libro “Milan Squadra VIP”, 1977, ediz. Litograph, Firenze)
Il libro riporta un errore nella didascalia della formazione (indica infatti “1942-43” anzichè la corretta stagione 1944-’45)
La notizia di questo accordo arrivò anche ad alcune società di Serie A “che cedettero al Como per un solo anno i loro migliori giocatori”. Un po’ come in Fuga per la vittoria il Tremezzina giocò con il Como a Solzago “in quella famosa partita con i tedeschi. Loro ci sfidarono in un incontro che noi affrontammo senza paura, al massimo delle nostre possibilità, e vincemmo”. Nei giorni seguenti “tememmo la loro vendetta che però non arrivò. Loro accettarono il verdetto sul campo e finì lì». Ma dopo la Liberazione? Il torneo “continuò, eravamo i primi e ci sentivamo i più forti”. Semmai un inciampo ci fu nel derby con il Lecco, “la sera prima commettemmo l’errore di uscire a mangiare e bere, cosa davvero rara per quei tempi”.
La partita si concluse con una goleada, 9-2, di quelli dell’altro ramo del lago “ma la fortuna ci aiutò e la partita fu invalidata. Il torneo terminò e ci diedero una coppa ma nessun riconoscimento personale”. I grandi campioni – c’erano “Ramella della Lazio e Fattori e Lovagnini di un’altra categoria” – tornarono infine alle loro squadre “mentre io invece mi stabilii definitivamente a Como”. Dei due presidenti di quegli anni a cavallo del 1945, Luigi Colombo e Luigi Ballerini, non si sa praticamente nulla: impossibile stabilire se fossero vicini al fascismo o piazzati lì dal Cln, come accaduto con molte altre squadre del Nord dopo la Liberazione.
Facile che fossero “uomini di mondo”, capaci di dribblare qualunque tribolazione con l’epurazione come potrebbe aver fatto un tale Gianni Binda che, stando agli almanacchi di Levrini, fu presidente del Como negli anni ‘30 e poi dirigente della squadra dopo la guerra. Non è improbabile – ma siamo sempre nel campo delle ipotesi – che lo stesso Moretti abbia dato un’autorevole via libera alla composizione societaria che guidò gli azzurri lacustri in quell’incredibile e vittorioso torneo del 1945. Pietro Gatti peraltro ebbe poi da recriminare nei confronti della vita. Sacramentando negli anni ‘90 nel corso di un’intervista al Corriere non mancò di far notare che lui era rimasto in Brianza a fare l’operaio, costretto a chiedere i sussidi al Comune per campare.
Ma erano finiti in Parlamento altri celeberrimi partigiani come Walter Audisio, il colonnello Valerio che sicuramente giustiziò Mussolini, e Dante Gorreri, dirigente comunista a Como e custode dei segreti di Dongo: con lo spigoloso ex terzino, entrambi avevano diviso le responsabilità nelle ore drammatiche dell’esecuzione di Mussolini e degli altri nella colonna di fascisti fuggitivi. Sia come sia, la “sgroppata” del Como tra Salò e Liberazione resta un inedito nel nostro calcio, un’impresa eloquente della passione degli italiani per il pallone e che corre in parallelo con quella, altrettanto seguita dai tifosi, dei pompieri dello Spezia (molti dei quali vicini alla Resistenza) capaci di vincere il campionato Alta Italia 1944, pure questo organizzato dalla Rsi, stracciando al fotofinish addirittura il Grande Torino. Levrini, 60 anni, due figli, tifosissimo del Como “che seguo comodamente stando in tribuna stampa”, prova a buttarla lì: ”Il Trofeo Lombardo è il nostro piccolo scudetto mai riconosciuto, mai neppure richiesto alle autorità federali. Chissà, forse varrebbe la pena di ripensarci…”.