Ogni 7 maggio è una data speciale per la Cremonese. Infatti compie gli anni uno dei giocatori simbolo della squadra grigiorossa, un grande capitano, un condottiero il cui nome è Mario Montorfano, classe 1961.
Sono ben 34 gli anni trascorsi alla Cremonese da Montorfano, 16 da calciatore. Per i grigiorossi è stato come Maldini per il Milan, Zanetti per l’Inter o Del Piero per la Juve. Il leader, la bandiera, una carriera intera con la stessa maglia, dando l’anima in campo come farebbe un tifoso e ciò ha fatto di lui un idolo, il cui ricordo è tramandato negli anni. Ha giocato con tutti i più grandi, da Cesini a Dezotti, da Finardi a Chiorri venendo allenato anche dai mitici Mondonico e Simoni.
Montorfano è il simbolo della storia moderna della Cremonese. Ha vissuto tutte le stagioni più memorabili degli anni d’oro, ottenendo innumerevoli promozioni e vincendo anche l’Anglo-Italiano a Wembley, coronamento di una carriera al servizio dei grigiorossi. Ci sono stati anche momenti difficili, come i salti in massima serie mancati oppure le retrocessioni ma Montorfano c’è sempre stato.
Smessi i panni del calciatore, la sua avventura a Cremona non è finita. Divenuto allenatore delle giovanili grigiorosse ha traghettato poi la squadra in alcune stagioni tra le più difficili di sempre. Prima con Bencina ha compiuto un miracolo salvando la squadra in C2 nell’anno della Cremo povera ma bella, poi ha preso le redini in un momento drammatico, quello post calcioscommesse, mettendoci la faccia e la propria passione e riuscendo ancora ad ottenere buoni risultati con un ottavo posto finale. L’ultima avventura in prima squadra risale all’anno 2014-‘15, quello del primo Brighenti, in un’altra annata non semplice.
Per chi ama il calcio e lo vive ancora con gli occhi di una poesia che non ha fine, quella di Mario Montorfano con la Cremonese si può definire proprio così: una poesia.
Sedici anni di vita, vissuti da calciatore con la stessa maglia Dal 1978 al 1994, la numero cinque vedeva sempre lui, Mario Montorfano, indossarla. Potrebbe bastare questo per farsi venire i lucciconi agli occhi, ma dietro questi anni di passione c’è la storia di un uomo che dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, come abbiamo detto, ha continuato a vivere di Cremonese, tra campo prima, panchina poi.
Da Giovanni Galeone – il suo primo allenatore in grigiorosso – a Bruno Mazzia, passando per Emiliano Mondonico: tanti allenatori hanno indossato la tuta della Cremonese nella carriera di Mario Montorfano, trovandolo sempre lì. Dalla C del 1978 alla A, con Mario Montorfano sempre lì. Se non è poesia questa.
La sua storia, quegli spogliatoi, le trasferte, le vigilie di ogni partita, le vittorie confuse nelle sconfitte, Montorfano ha concesso di riviverle in un’intervista rilasciata a Danile Mosconi in “Mi ritorni in mente”, dove i ricordi prendono il sopravvento sul presente, rivivendo le emozioni di un calcio che aveva tanti difetti, ma era a portato di tutti, tifosi compresi.
Ogni benedetta domenica per 16 anni di fila. Dalla C alla A con la domenica protagonista. Quando il calcio viveva la sua apoteosi nel settimo giorno della settimana.
Una passione che non finisce mai.
“No, non può finire. Il calcio è ancora oggi la mia vita. Anche se non avessi giocato in A o B, sono sicuro che mi avreste trovato in un campo di periferia in uno sperduto campionato dilettantistico a fare quello che più mi piace. La stessa cosa posso dirla del mio attuale lavoro, quello di allenatore. Lo ero già in campo mentre giocavo, facendolo senza nessuna forzatura”.
Quando ha esordito con la Cremonese?
“Esattamente nel 1978, eravamo in C e il mio esordio fu nel torneo Anglo-Italiano. Mi hanno provato insieme ad altri ragazzi della Berretti e da quel momento non sono più uscito: sedici anni della mia vita”.
Uno stopper nato con la marcatura a uomo e cresciuto con quella a zona.
“Ho iniziato con la marcatura a uomo, che in quegli anni era il ‘vangelo’ del nostro calcio, per poi iniziare a fine anni ’80 con il gioco a zona”.
Lei come arrivò a Cremona?
“Sono nato a Brescia ed ho iniziato con le giovanili della Leonessa Brescia, società gloriosa dove sono venuti fuori i fratelli Bonetti (Ivano e Dario, NdR), Romano Galvani ed il sottoscritto. Nel 1975 a 14 anni sono arrivato alla Cremonese e ho iniziato la mia avventura. All’inizio giocavo nei Giovanissimi, in seguito gli Allievi e la Berretti. Nel 1978, non ancora diciottenne il mio esordio in prima squadra”.
Quale ricordo ha di quegli anni nel settore giovanile?
“Colui che mi ha fatto esordire è stato Dante Fortin; ricordo Guido Vincenzi, dopo di lui posso ricordare con affetto Emiliano Mondonico. In quegli anni era abbastanza normale finire di giocare e iniziare a fare l’allenatore. Il ‘Mondo’ mi ha insegnato ad essere cattivo nelle marcature: ero si grintoso, determinato, ma avevo come obiettivo quello di prendere la palla e non pensavo che ci volesse anche quel pizzico di cattiveria per poterla riconquistare”.
Altri allenatori?
“Tutti nella Cremonese mi hanno insegnato qualcosa: da Giagnoni a Burgnich, Simoni, tutte persone che mi hanno forgiato, accompagnando la mia vita da calciatore nei migliori anni della Cremonese, quando siamo partiti dalla C a fine anni ’70 fino alla A degli anni ’80”.
Il grado di difficoltà dalla C alla A era evidente.
“Lo è tutt’oggi. Ho avuto il piacere di arrivare in A con tutti i compagni che hanno vissuto questa escalation – come lo stesso Gianluca Vialli che ha poi vinto tanto nella sua carriera -. A Cremona, in quell’epoca al vertice del club c’erano i vari Luzzara, Miglioli, coadiuvati da un collante tra la squadra e la società come Erminio Favalli, capaci di far vivere a questa città anni di grande calcio. Questo si è potuto verificare perché in fondo c’era una base solida su cui lavorare. A questo bisogna aggiungerci una piazza tranquilla come era quella di Cremona in quegli anni, unita a campagne acquisti mirate – massimo quattro, cinque volti nuovi – riuscendo a scrivere pagine importanti nella storia di questo club. Oggi per un calciatore italiano, giocare in A è molto difficile: proprio l’altro giorno guardavo una statistica e vedevo che il numero di elementi utilizzati nelle rose delle prime squadre di nazionalità italiana sono un centinaio, il resto sono stranieri. Per farvi capire la differenza: quando giocavo io, al massimo c’erano uno o due stranieri. Questo permetteva a tanti ragazzi di poter migliorare fino ad arrivare alla serie A o la B. Una cosa oggi quasi impensabile”.
Ci arriveremo. Quando ha pensato Mario Montorfano che fosse il momento di ritirarsi?
“Quando ho iniziato a giocare poco mi sono reso conto che ormai ero arrivato alla fine della mia carriera da giocatore. Purtroppo la mia carriera è stata funestata da incidenti piuttosto gravi che hanno condizionato relativamente il mio percorso, se non a livello psicologico. Uno di questi mi è capitato quando giocavo in C e facevo parte della Nazionale Under 21 del signor Guglielmo Giovannini. Giocavo con Walter Zenga, Giancarlo Corradini, Luca Pellegrini, Mario Faccenda. Mi ruppi il crociato anteriore e il menisco: in quegli anni per il crociato anteriore non c’erano tecniche di ricostruzioni che ci sono ora – parlo dei primi anni ’80 -. Ho dovuto attendere parecchi mesi e molte distorsioni per tornare al mio livello”.
Questo infortunio le ha anche impedito di poter spiccare il volo.
“Esatto. C’erano l’Atalanta, la stessa Juventus, la Fiorentina che mi cercavano. Questo infortunio mi ha penalizzato in un momento importante per me. Ho deciso di smettere quando facevo fatica a tenere il ritmo visti i tanti infortuni degli anni passati. Uno dei peggiori il 23 novembre del 1984: a Napoli contro il Napoli di Maradona. Ho avuto un incidente cranico con un compagno di squadra, con arresto cardiocircolatorio, rischiando addirittura di morire”.
Ha subito pensato di fare l’allenatore?
“Sì, fin da subito. È una cosa fatta con estremo piacere. Spesso sento l’equazione ex calciatore uguale allenatore è una cosa sbagliata. E’ affine, ma è un altro ruolo: bisogna abbinare, al di là delle conoscenze didattiche, la capacità di gestire un gruppo di venti, venticinque elementi, facendo delle scelte. Ho visto a Coverciano ex calciatori che non avevano le capacità per fare gli allenatori. Non mi sento di condannarli: quando uno smette di giocare o apre un’attività extracalcistica oppure si sente un po’ perso, chiedendosi cosa faccio adesso, cercando di fare l’allenatore, sapendo che non ne hanno le capacità, ma soprattutto non hanno i princìpi e la volontà per fare questo mestiere”.
Lei ha fatto per vent’anni l’allenatore.
“Ho iniziato appena smesso, nel 1995, avendo continuato a giocare un altro anno nei dilettanti, ma era più un passatempo per divertirmi che altro. Sono partito dalle categorie inferiori: ricordo che allenavo gli esordienti del 1985, avevano dieci anni. Ricordo che mi sembrava di allenare la Nazionale, talmente ero contento. Ho proseguito fino ai Giovanissimi per arrivare alla prima squadra della Cremonese, dopo averla anche allenata in passato. Ho fatto la mia gavetta allenando in primis la Primavera e poi la Berretti, rimanendo sempre in una fascia piuttosto alta”.
Dovesse definire la sua carriera da allenatore, quale termine userebbe?
“Non sono stato sicuramente molto fortunato nel mio ruolo di allenatore, anche se devo dire che ho sempre lavorato nonostante la concorrenza spietata che c’è – ogni anno a Coverciano vengono fuori molti allenatori -. A livello di prima squadra, ho una recriminazione importante: nel 2001-‘02, la Cremonese era in una situazione economica disastrata – Luzzara aveva passato la mano -, quell’anno in C2 ho fatto esordire ben 16 giocatori. Ci siamo salvati con due giornate d’anticipo: soltanto dopo è stato compreso il lavoro che si è svolto in quei mesi. Forse sarebbe stato l’inizio della mia carriera con Luzzara e Favalli se ancora fossero rimasti al comando del club, ma cambiando gestione, tutte le figure storiche, dallo stesso Montorfano, Bonomi e Bencina son state costrette a dover andar via. Luzzara gestiva la Cremonese dal 1966, ha lasciato proprio nell’anno quando io mi affacciavo alla prima squadra”.
Ha allenato la Cremonese anche nel 2001, l’anno del calcioscommesse.
“Quell’anno prima di me c’erano stati Marco Baroni e Leo Acori. Le ultime cinque giornate sono subentrato io, ci siamo salvati però non sono stato riconfermato. Quello che conta nel ruolo di un allenatore è quello di essere sempre stimolati, mettersi sempre in gioco, scoprire, aggiornarsi, inventare nuovi sistemi di gioco”.
Si ritiene una persona privilegiata?
“Nel mio piccolo si: ho fatto per 16 anni il giocatore ad un buon livello e per i restanti venti anni ho allenato. Ho fatto una cosa che molti vorrebbero fare”.
Le è capitato di giocare con gli amici – le classiche partitine del giovedì – ed entrare in uno spogliatoio? Cosa provava?
“La sensazione è sempre quella: indimenticabile. Le dirò di più: negli ultimi dieci anni ho giocato in una squadra amatoriale Uisp (unione italiana sport per tutti, NdR) di Borgo Satollo, dove risiedo, facendo anche l’allenatore. Al di là delle categorie, il profumo dell’erba è sempre inebriante. Ed è stata secondo me la cosa che mi è mancata maggiormente quando ho smesso”.
Quali altre cose le sono mancate all’inizio?
“La vita nello spogliatoio, l’allenamento, il ritiro, lo stare insieme alla squadra, le gioie, le tristezze: tutti aspetti che danno molta adrenalina. Ogni allenamento è importante, ogni partita – come dicevo spesso ai miei ragazzi – è un compito in classe da svolgere. Sono sempre emozioni forti, spesso anche le tensioni: c’è qualcosa che ti tiene vivo, tenendoti impegnato a livello fisico e cerebrale”.
Nel calcio ci sono uomini che costruiscono le carriere dei calciatori. Lei a chi si sente di dire grazie?
“Alla Cremonese di Luzzara, Miglioli e Favalli. Queste tre persone hanno accompagnato in questi lunghissimi anni la mia carriera, standomi vicini nei momenti in cui gli infortuni che ho patito potevano portarmi ad uno sconforto tale da decidere di abbandonare. Anche tutti gli allenatori che ho avuto mi hanno stimato, perché penso che a Cremona siano stati ottenuti dei risultati importanti, quasi irripetibili. Difficile trovare situazioni che poi portavano a quello che si è vissuto”.
Secondo lei qual era il segreto di quella Cremonese?
“Era una società che aveva nel suo interno persone vere, dove venivano valorizzati i rapporti umani: dove la solidarietà, la compattezza la facevano da padrone. Dove si lottava realmente per una causa comune, per far bene la domenica. Eravamo una squadra composta da giocatori più o meno bravi, ma era animata da sani princìpi, dove c’erano poche invidie. Tutto questo mix ha permesso alla Cremonese stessa di creare i presupposti per qualcosa di bello e come ho detto prima, irripetibile. Soprattutto – ed è un aspetto a cui ci tengo particolarmente, avendolo vissuto – nelle retrocessioni non ci si piangeva addosso, ma si voltava subito pagina, ed ecco che negli anni ’80 la Cremonese faceva l’ascensore dalla A alla B, in virtù di una struttura societaria importante, dove non c’era esasperazione, bensì programmazione, dando un’importanza vitale al settore giovanile, dove uscivano i giocatori – posso citare Maspero, Turci, Vialli, Favalli, Bonomi, Marcolin – che poi avrebbero permesso di proseguire sul viatico già tracciato”.
Lei ha parlato dei rapporti umani. A fine anni ’70 e fino a metà anni ’80, le tv non erano presenti quasi per nulla durante la settimana e questo consentiva come diceva poc’anzi, la creazione di rapporti umani sinceri, dove il calciatore non era visto come un essere inarrivabile.
“Dire ‘ai miei tempi’ è sbagliato, anche se facendo una valutazione sulla comunicazione e sui rapporti, qualcosa è cambiato, però quando vedi questi giocatori che scendono dal pullman con le cuffiette, non dico che rimango esterrefatto ma qualcosa è andato oltre. Tra di noi c’era comunicazione, si parlava della partita, prepararsi, incitarsi a vicenda, parlare anche dopo la partita, cercando di guardare cosa si era fatto di positivo e di negativo. Si viveva lo spogliatoio, si stava insieme. Oggi è un calcio più spettacolare, da palcoscenico che dipende dagli interessi televisivi”.
Con la Cremonese nel 1993 ha vinto la Coppa Anglo-italiana, giocando seppure per pochi minuti nel mitico stadio di Wembley.
“Dopo aver eliminato il Bari in semifinale, abbiamo disputato la finale contro il Derby County: fu una cavalcata stupefacente. Ho avuto la fortuna di calcare il terreno di Wembley, entrando a poco più di dieci minuti dalla fine. Cosa che non è successa a tutti, viste le vicissitudini di molti giocatori che non vi hanno mai messo piede. Quel trofeo venne abbinato alla promozione in A – la quarta dalla B alla A, mentre già prima ce n’era stata una dalla C alla B “.
Vorrei fare un passo indietro: lei nel 2011 è arrivato alla Cremonese nelle ultime giornate e stava scoppiando lo scandalo del calcioscommesse, cosa ha provato nel vedere macchiato il nome del club dove per 16 anni ha giocato?
“Mi ha lasciato con l’amaro in bocca nel pensare che, alcuni giocatori, non solo scommettessero per fatti loro – cosa legalmente non fattibile visto che i calciatori non possono scommettere -, ma giocassero sul destino della squadra dove lavoravano, sono rimasto scosso. È stata una cosa veramente triste, non facendo fare una bella figura alla città di Cremona e all’Italia in generale. Se poi devo fare un discorso più ampio, bisogna ammettere che in situazioni dove girano parecchi soldi c’è sempre il rischio che qualcuno provi delle scorciatoie”.
Giancarlo Antognoni ha lamentato la scomparsa dei numeri 10. Lei che li ha vissuti, sia a uomo che a zona, cosa ne pensa?
“Credo che il nostro campionato non sia il più bello, però tatticamente è il più difficile. La maggior parte degli allenatori italiani partono da un assunto imprescindibile: non far giocare l’avversario, quindi si tende a far prevalere la tattica difensiva sul resto. Non dimentichiamoci che lo stesso Zola, per giocare ha dovuto emigrare in Inghilterra. Il ruolo del trequartista o la mezza punta, non venivano contemplati nel 4-4-2 così dogmatico. La bellezza del calcio ha bisogno di giocatori che inventino le giocate, che sappiano esaltare le folle”.
La cosa più difficile per un allenatore in molti casi è quello di creare attenzione su quello che dice.
“Ritengo che un uomo che decida di intraprendere la carriera di allenatore non deve mai dimenticare di essere stato anch’esso a suo tempo un bambino e in seguito un ragazzo. L’aspetto più difficile, al di là della conoscenza della materia, ci dev’essere la forza di rapportarsi con i ragazzi, sapendo che tutti sono diversi. Ben sapendo che le regole comuni, come l’orario, l’ordine e la disciplina, sono basilari per tutti. Ho imparato negli anni che bisogna applicare tattiche comportamentali in base al soggetto che si ha davanti. Non è facile gestire tanti ragazzi, con aspettative, caratteri e comportamenti diversi”.
Siamo quasi alla fine: l’esonero è stato un epilogo triste per lei che ha vissuto quasi tutta la sua vita con questi colori.
“Sicuramente ne ho sofferto tantissimo, anche se conosco le regole del calcio e quelle dell’allenatore in particolare. Non ero d’accordo con l’esonero, perché ritengo che dopo anni di spese folli, si era partiti da un anno zero, con una squadra giovanissima, forse troppo. Si era creato comunque intorno alla squadra un buon entusiasmo e i 2500 abbonati erano lì a dimostrarlo, ma questo non è bastato. Sono fiero – distinte alla mano – di aver diretto per dodici partite una squadra molto giovane con risultati soddisfacenti anche se non bastevoli ad evitare il mio esonero. Abbiamo perso molte partite per un gol di scarto e reti prese su calcio piazzato. Squadre che ci hanno dominato non ne ricordo. In definitiva credo che ci sia stata poca pazienza e coerenza rispetto a quello che era il progetto iniziale. Per non parlare della modalità del mio esonero: potrei dire premeditata”.
Perché dice premeditata?
“Credo che non sia mai successo di essere esonerati dopo una partita non giocata. Dovevamo andare a Como, ma l’incontro non si disputò per il campo allagato. Il giorno dopo sono stato esonerato. Questo fa parte del gioco, lo so, però il dispiacere è tanto”.
Sui vari social network quando si parla di voi, si usa spesso: “Quella era la Cremonese”. Secondo lei perché c’è questa passione ancora forte a distanza di anni?
“C’era uno zoccolo duro di giocatori che hanno anche disputato più di cinque stagioni con la maglia della Cremonese che portava il tifoso ad identificarsi in loro. Il tifoso ha anche bisogno di questo: di senso di appartenenza”.
C’è una partita che le piacerebbe rigiocare, anche adesso?
“Vorrei prima cancellarne una. Campionato 1984-‘85, contro la Juventus: perdemmo 5-1. Quella domenica avevo causato un rigore su Paolo Rossi, avevo marcato male Massimo Briaschi: fu una domenica da dimenticare e se potessi la vorrei cancellare da subito. Mentre se potessi rigiocare, sicuramente la semifinale di Coppa Italia contro l’Atalanta. Era la Cremonese di Bruno Mazzia: perdemmo contro gli orobici (2-0 a Bergamo, 0-0 allo “Zini”, NdR) che in finale persero a loro volta contro il Napoli e la stagione successiva – nonostante fossero in B – arrivarono fino alla semifinale di Coppa delle Coppe persa contro il Malines. Sarebbe stato fantastico poter regalare questa soddisfazione ai tifosi della Cremonese”.
Le fotografie sono di Ivano Frittoli