Da allora il 12 maggio a Verona non è più un giorno qualunque.
Osvaldo Bagnoli portato in trionfo, la festa negli spogliatoi, le migliaia e migliaia di tifosi sugli spalti del Comunale di Bergamo, una città impazzita di gioia.
Era proprio il 12 maggio 1985: pareggiando per 1-1 con l’Atalanta, con Preben Elkjaer che impattò la rete nerazzurra di Perico, il Verona conquistò la matematica certezza dello scudetto.
Il trionfo più grande e leggendario, una storia da raccontare a chi, per ragioni d’età, non l’ha potuto vedere e vivere. Da allora sono trascorsi 37 anni, ma – come ha scritto Matteo Fontana – la percezione di felicità condivisa che accompagnò quel giorno è ancora forte e percepibile.
Il Verona vinse ottenendo 43 punti – all’epoca ogni vittoria valeva 2 punti e non 3 – staccando di lunghezze il Torino secondo in classifica: concluse il campionato con due sole sconfitte e la miglior difesa (19 gol subiti in 30 partite).
Come ha spiegato Gianni Mura su Repubblica, lo scudetto del Verona sarà probabilmente «irripetibile»: la rosa della squadra era composta da 17 giocatori e lo staff tecnico era composto solamente da Bagnoli e dal suo viceallenatore, che fra l’altro sceglievano i giocatori da acquistare con l’aiuto dell’album di figurine Panini. Bagnoli fu comunque abile a costruire una squadra comprando le riserve di squadre più importanti o buoni giocatori da squadre europee: i due capocannonieri della stagione, gli attaccanti Preben Elkjær Larsen e Giuseppe Galderisi, erano stati comprati rispettivamente dal Lokeren e dal Milan.
Entrambi segnarono 13 gol. La squadra di Bagnoli è ricordata per la sua grande organizzazione e la solidità difensiva: «per inquadrare l’impresa del Verona, va detto che in campionato c’erano stranieri come Maradona, Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Passarella, Boniek, Brady, Junior, Socrates, Hateley, Cerezo, Diaz e Souness».
Quello scudetto, bellissimo e irripetibile, basterebbe una frase di Fanna a spiegarlo: «Con Bagnoli ci siamo sentiti come uccelli fuori dalla gabbia». Per capire Bagnoli basterebbe un episodio. Nel marzo 1985, con il Verona in testa alla classifica fin dalla prima partita, l’Associazione allenatori organizzò un convegno sul tema “Evoluzione tattica del calcio mondiale”.
C’erano tutti, da Trapattoni a Sonetti. Bagnoli, figuriamoci, in penultima fila. A un certo punto lo chiama il coordinatore, Marino Bartoletti, per illustrare il fenomeno-Verona. Bagnoli sale sul palco, si tocca il naso (fa sempre così quando è incerto sull’avvio) e dice: «Ecco, adesso mi tocca fare la figura dello stupido perché non c’è niente da spiegare. Dico solo una cosa: il Verona gioca un calcio tradizionale, che noi facciamo pressing lo leggo sui giornali. Io in campo non l’ho mai notato. Scusate, ma mi chiedete una ricetta che non ho».
La ricetta in realtà era già nota: «El tersin fa el tersin, el median fa el median». Aveva un modo tutto suo di parlare, Bagnoli. Mescolava il suo primo dialetto, milanese, con quello di Verona: dove ha giocato, ha messo su famiglia, ha allenato e vive. Cosa gli resta di quello scudetto?
Qualche anno fa rispose in questi termini: «L’affetto della gente, in città, e dei miei giocatori. Ogni tanto ci si ritrova per una partita di beneficenza. Le feste, una ogni cinque anni. E ogni volta che vedo tutta ‘sta gente contenta mi dico che abbiamo fatto qualcosa di bello. Tutti insieme, voglio sia chiaro. I giocatori, il ds Mascetti, il presidente Guidotti, il patron Chiampan, la città che non ci ha messo pressione. E anche un po’ di fortuna: avevo una rosa di 17 giocatori per campionato, coppa Italia e coppa Uefa. Si infortunavano uno alla volta, potevo metterci una pezza».
Una rosa di 17 giocatori. Ecco perché parliamo di uno scudetto irripetibile, ma anche di un materiale umano, non solo tecnico, di cui si sono perse le tracce. Sapete in base a quali informazioni Bagnoli chiedeva questo o quel giocatore al suo amico Ciccio Mascetti? «Sfogliavo l’almanacco Panini e cercavo centrocampisti da tre-quattro gol a stagione». Era stato operaio, poi calciatore-operaio, poi allenatore-operaio.
Per capire Bagnoli bisogna aver visto il suo quartiere, la Bovisa, quando era solo prati e fabbriche. Il padre lavorava alla Fargas. Lui giocava a pallone, scalzo. «Succede mica solo in Brasile, sa?». Abitava al 104 di via Candiani, vicino alla stazione delle Ferrovie Nord, quelle dei pendolari. Lascia dopo la prima media e passa a una scuola di disegno tecnico. «Che era già lavorare. Nel doposcuola facevo cinture». E poi tazze di water, a cottimo. E poi fasce elastiche in un’officina meccanica. «Lavori che insegnano cos’è la fatica, i veri sacrifici, altro che quelli dei calciatori».