Fino al 1985 è stato uno dei palazzi più “ambiti” di Campobasso. E non perché chissà quali optional offrisse. Semplicemente, proponeva una vista per l’epoca meravigliosa: le partite dei Lupi al Vecchio Romagnoli. Hai detto niente… Via Albino, numero 10: da lì sono stati osservati da una posizione privilegiata calciatori tosti, altri meno, gente come Giordano, D’Amico, Baresi, Tassotti, Evani, Jordan, Marocchi.
Una “tribuna non pagante” alle spalle di quella centrale, occupata soprattutto dagli abbonati, altro che Sky. Sembra quasi inutile sottolineare che i balconi erano sempre stracolmi, i padroni di casa chiaramente occupavano la primissima fila e non vedevano l’ora di esultare ai gol di Biondi, Scorrano, Di Risio, Maestripieri…
Lo scatto fotografico si riferisce a un Campobasso-Lazio del 30 gennaio del 1983. Vinsero i rossoblù con gol di Biagetti davanti a circa quindicimila spettatori, di cui un centinaio sui palazzi.
E sì, perché c’erano almeno altre tre-quattro postazioni di lusso per non pagare il biglietto. Uno di questi era sicuramente il “palazzo dei ferrovieri”. Come d’altronde accadeva negli stadi di altre località posizionati nei centri cittadini.
Tempo fa è successo per esempio a Frosinone, dove per questioni di ordine pubblico la Questura ha vietato alle persone di guardarsi la gara dalle proprie abitazioni, “si rischiavano cedimenti strutturali”.
Casi analoghi a Siena in serie A, dove c’era uno strano via vai nel vicino comando della polizia municipale, e a Crotone in B, dove invece il direttore dell’Asl fu costretto a chiudere l’adiacente ospedale “perché troppa gente si faceva ricoverare per un giorno pur di assistere gratis alla partita”.
A conferma che questo modo tra il romantico e il “portoghese” di seguire le partite è da sempre un tratto caratteristico del pallone di provincia. Facile immaginare che fosse quasi d’obbligo, e non scortese, autoinvitarsi per il pranzo domenicale, o al limite per un caffè o un ammazzacaffè a casa di chi aveva una simile fortuna.
“Era quasi scontato stare insieme la domenica a casa mia quando il Campobasso giocava in casa – ricorda con un senso di nostalgia un signore sulla ottantina che non abita più in quel palazzo –. Peccato che sia stato buttato giù quel mitico stadio, anche se per l’incuria che c’era è stato meglio così”. Per non dire cosa succedeva quando si segnava un gol: “Bisognava stare attenti a non sporgersi troppo per la gioia, ma era davvero uno spettacolo non solo guardare il match da lì ma anche tutta quella gente assiepata sugli spalti”.
È chiaro che il panorama è cambiato: al posto del pubblico e delle tribune non c’è che una rete che delimita il rettangolo di gioco ingiallito. E auto, niente altro che auto parcheggiate. Il nostro palazzone di sei piani più attico è sempre lì.
I colori non sono cambiati, danno sul rossiccio e bianco. Magari una mano di vernice in questi trent’anni e più senza calcio rossoblù si sarà data. Ma tutto il romanticismo che ruotava attorno a quei balconi e a quelle finestre che confinano col campo restano in fondo ai ricordi di chi ha vissuto anni davvero belli nel capoluogo.
La “Campobasso da bere” la chiamava qualcuno, quella che portava fieramente in giro per l’Italia il proprio nome al cospetto di metropoli e squadroni di mezza Italia.