Stefano, per tutti Bobo, Maccoppi. Una lunga avventura vissuta durante gli anni più romantici del calcio italiano, a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta: “ti rendi conto che un asso della Seleçao come Dirceu giocava nel Como?”. Con i lariani Bobo è cresciuto e arrivato nel grande calcio, ma prima c’è la gioventù vissuta nell’hinterland di Milano al fianco di una figura iconica come Gaetano Scirea. Difensore vecchio stampo, molto abile di testa, Maccoppi è nato il 21 aprile del 1962 e in occasione del suo sessantesimo compleanno ci ha aperto il suo album dei ricordi. Oltre alla maglia lariana ha vestito anche quelle di Rhodense, Sambenedettese, Ancona, Bari e Piacenza. Il Guerin Sportivo lo ha intervistato.
Raccontaci della tua infanzia e delle sfide con Scirea.
“I miei genitori e quelli di Gaetano si conoscevano bene perché lavoravano insieme alla Pirelli. Quando la carriera di Gaetano era già nel pieno io ero ancora un ragazzo che sognava di diventare calciatore. Ricordo che portava a casa le maglie avversarie. Una volta vidi sul suo balcone quella dell’Ajax (Gaetano abitava al primo piano), tutti i bambini si riunirono lì sotto per ammirare quella maglia spettacolare, per me poi che ero malato di Cruijff figuriamoci… Gaetano aveva qualche anno in più di me, ma fin da piccoli giocavamo nel campetto di Cinisello vicino casa, era una sfida continua tra noi, quelli di via Tiziano, e loro, quelli di via XXV aprile. Si facevano sfide continue con figurine, biglie, bussolotti… sfide a palle di neve: era continuamente Via Tiziano contro Via XXV Aprile”.
E chi vinceva? Scirea faceva già la differenza?
“Gaetano fortissimo, ma anche il fratello era molto bravo. Nella prima sfida ci fecero neri, io mi congratulai e Gaetano con la sua umiltà ci fece sentire all’altezza ricambiando i complimenti. Frequentavamo in comune anche l’oratorio della chiesa Pio X. Gaetano giocava proprio per la squadra della San Pio, mentre io poi andai al Cusano Milanino, squadra dalla quale sono usciti tantissimi calciatori. Gente come Trapattoni, Collovati, Todesco, Bosco, Comi, i fratelli Maldera, solo per dirtene un po’, ha iniziato lì. Il nostro era un gruppo fortissimo già dai pulcini, quattro elementi di quella squadra sono poi arrivati in Serie A: Bosco, Comi, Bonesso e il sottoscritto”.
Dal Cusano Milanino andasti al Como.
“Prima del Como con il Cusano Milanino facemmo un provino per il Torino, giocammo contro i loro pari età e li battemmo 4-1. Quelli del Toro ci volevano prendere tutti, ma alla fine fummo selezionati in quattro. Ero contentissimo di poter andare in una squadra storica come il Toro, ma quando tornai a casa, mentre mio padre condivideva la mia gioia, mia madre in milanese stretto mi disse: ‘No, tu non ci vai a Torino. Resti qui e studi’. Non mi mandò perché ci avrebbero tenuto in collegio. Piangevo e pensavo che non ce l’avrei mai fatta”.
Poi cosa successe?
“Anche il Como, all’epoca in Serie B, mi selezionò. Torino e Como erano i settori giovanili più in auge in quel periodo: in granata come responsabile del settore giovanile c’era Sergio Vatta che ha tirato fuori milioni di giocatori, ma al Como c’era un certo Mino Favini, che ci vedeva lungo. Che spettacolo, a raccontarla non ci si crede… Ancora oggi abbiamo una chat con i miei compagni degli Esordienti del Como, ti posso assicurare che erano giocatoroni: oggi sarebbero tutti in Serie A, all’epoca, invece, molti arrivarono a esordire senza riuscire a mantenere la categoria, scendendo in B o in C, che comunque in quegli anni erano campionati di altissimo livello”.
Raccontaci del tuo esordio con la maglia del Como.
“A Como mi allenavo con la prima squadra ma non debuttai subito in B, mi mandarono in prestito in C2 alla Rhodense a farmi le ossa. Vincemmo il campionato, salimmo in C1, passai lì un’altra stagione e feci ritorno alla base. Esordii in Serie B contro la Cremonese e marcai subito un attaccante niente male: Vialli. Rimasi impressionato da Gianluca. Ricordo facemmo 0-0, ma faticai tantissimo per tenerlo. Negli anni poi furono tante le sfide con lui. Vialli era un calciatore straordinario, è stato bellissimo poter ammirare da vicino il suo modo di vivere le gare, il modo in cui parlava con i suoi compagni: un calciatore assolutamente da ascoltare in campo”.
Dopo due stagioni la grande gioia della promozione in A, ma tu partisti di nuovo.
“Venimmo promossi in Serie A nel 1984, avevo 22 anni e decisero di rimandarmi in prestito per non farmi sprecare un anno a fare panchina. Mi mandarono a San Benedetto del Tronto in Serie B insieme a Stefano Borgonovo. Facemmo un’ottima stagione in una squadra formata da noi e quasi tutti ‘over 30’. L’avventura col ‘Borgo’ è stata bellissima, abbiamo abitato insieme per un anno, mi chiamava ‘fratello maggiore’. Ricordo che gli facevo tutti i conti, gli dicevo cosa spendere e cosa mettere da parte… ‘Borgo’ fece 13 gol, mentre io giocai 38 partite su 38, senza saltare neanche un minuto”.
Con Borgonovo un rapporto duraturo che andava oltre il campo.
“Poi tornammo a Como per iniziare l’avventura in Serie A. ‘Borgo’ andò via da Como due anni prima di me, ma il nostro rapporto non è mai cambiato: ci sentivamo sempre. Il giorno in cui morì ero a Genova a lavorare con la Primavera della Samp, mi chiamò la moglie Chantal, partii di corsa, arrivai da loro alle 3 di notte. Stefano era anche il padrino di mio figlio: eravamo amici per la pelle”.
Nel 1985 l’esordio in Serie A contro un avversario speciale.
“Incredibilmente il mio esordio in Serie A avvenne al ‘Sinigaglia contro la Juventus del mio grande amico Scirea. Ricordo l’emozione di mio padre, che mi ha sempre sostenuto e che tra l’altro tifava proprio Juve. Abbiamo difeso dalla parte opposta rispetto al tunnel per gli spogliatoi, a fine partita fui uno degli ultimi a uscire dal campo e vidi questa figura che mi aspettava dentro al tunnel. Era Gaetano che mi disse: ‘Grande Stefano, sapevo che saresti riuscito ad arrivare in Serie A’. E ci abbracciammo”.
Anche te credevi che un giorno saresti diventato calciatore?
“Da ragazzo ci credevo tantissimo. Papà mi portava a ‘San Siro’ e ogni volta che vedevo i giocatori salire le scalette mi emozionavo e dentro di me pensavo che un giorno avrei voluto salirle io. Mio padre ha un passato nella San Martino – attuale Primavera – del Milan e mi raccontò che si era allenato perfino con Nordahl. È stato fantastico anni dopo poter incontrare proprio Nordahl, quando feci una tournée in Svezia, prima col Como, poi col Bari. In quell’occasione ci scattarono una foto insieme e la diedi al mio papà”.
Segnasti il tuo primo gol in A nella sconfitta col Pisa che costò la panchina a Clagluna. Poi cosa accadde?
“Con il modo di fare del nuovo allenatore, Rino Marchesi, la nostra stagione cambiò totalmente. Eravamo una squadra fortissima: Tempestilli, Paradisi, Bruno, Albiero, Borgonovo, Corneliusson, Dirceu. Marchesi arrivò alla decima giornata e perdemmo solo due partite fino al termine del campionato”.
Quell’anno però arrivò anche un gol che portò una vittoria.
“Il gol segnato al Toro lo ricordo con piacere, soprattutto perché avrei potuto essere un calciatore granata. Ne feci anche un altro anni dopo al Torino con Marchegiani in porta”.
Sempre nel 1985-86 avete sfiorato l’impresa, raggiungendo la semifinale di Coppa Italia. Ma cosa successe quel giorno al “Sinigaglia”?
“Nella semifinale d’andata di Coppa Italia contro la Samp segnai di testa il gol del pareggio. Al ritorno davanti al nostro pubblico ci credevamo veramente. Segnammo negli ultimi minuti di gara l’1-0, la partita era praticamente finita. All’ultimo istante Francis la pareggiò. Andammo ai tempi supplementari, Borgonovo segnò il 2-1 per noi e la Samp non ne aveva più. Ricordo che Matteoli se ne andò sulla fascia, la mise al centro, la palla passò e l’arbitro fischiò rigore. Ci fu un capannello intorno a lui, dalla curva arrivava di tutto e un accendino colpì in testa l’arbitro. Era una maschera di sangue. Ovviamente sospese la partita e ci diedero la sconfitta a tavolino”.
Resta quello il più grande rimpianto della tua carriera?
“Beh sai saremmo arrivati in finale, avremmo incontrato la Roma senza tutti i nazionali impegnati nel Mondiale messicano. In campionato eravamo imbattuti con i giallorossi, pareggio all’andata e vittoria al ritorno. Portare la Coppa Italia a Como sarebbe stata un’impresa, poi in quegli anni lì ti andavi a giocare la Coppa delle Coppe. Avremmo potuto fare come l’Atalanta di Mondonico. Sì, resta un grande rammarico della mia carriera calcistica”.
A proposito del “Mondo”. Come ti sei trovato con lui?
“Mondonico divenne il nostro allenatore proprio l’anno dopo (nel 1986-‘87, prima di andare all’Atalanta dove avrebbe raggiunto la semifinale di Coppa Coppe NdR). Anche con lui facemmo benissimo: dopo l’Inter fummo la difesa meno battuta del campionato (20 reti NdR)”.
In carriera hai segnato 17 gol, a quale di questi sei più legato?
“Il primo gol col Torino fu molto bello, su una sventagliata di Mattei sovrastai Francini e di testa la misi nell’angolino. Ma quello al quale sono più legato è arrivato con la maglia del Piacenza, al novantesimo della sfida contro la Ternana. Avevamo una squadra molto forte, eravamo convinti di tornare in Serie A, ma non riuscivamo a ingranare. In quella partita eravamo entrati in campo per mangiarci l’avversario, ma andarono in vantaggio loro. Pareggiammo all’ottantesimo e al novantesimo segnai il 2-1 sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Fu un gol importantissimo perché ci diede la scossa, arrivarono poi quattro vittorie consecutive e a fine campionato salimmo in A”.
Prima di Bari e Piacenza, hai giocato per un breve periodo anche ad Ancona.
“Ad Ancona mi trovavo benissimo, tra l’altro feci 2 gol in 8 partite. Ci andai perché mi illustrarono un progetto interessante che mirava in alto. La squadra aveva già fatto bene l’anno prima, conoscevo molti giocatori di buonissimo livello come Ermini, Bruniera, Gadda, Tovalieri, Nista, quindi mi convinsero… Eravamo nelle zone alte della classifica, ricordo un pubblico bellissimo, una curva sempre piena: impressionante. Feci molto bene ad Ancona e nella finestra di mercato di novembre mi volevano sia il Bologna che il Bari. Con i pugliesi avevo già parlato in estate. Con il ds Franco Janich eravamo d’accordo addirittura sulle cifre ma poi non se ne fece nulla. Il Bologna era in Coppa Uefa ed ero più attratto dalla destinazione. Conoscevo la città avendoci fatto anni prima il militare, ma soprattutto ero più vicino casa. L’accordo però lo trovarono Ancona e Bari, io con Janich avevo già parlato in estate e quindi andai in Puglia”.
Che ricordi hai di Bari?
“Bari è una piazza spettacolare, quell’anno c’erano 26mila abbonati e il progetto era veramente ambizioso. Il ‘San Nicola’ la domenica scoppiava. La squadra era composta da molti pugliesi, attaccatissimi alla maglia. Nel primo anno ci salvammo agevolmente, anzi potevamo fare qualcosa di più. In squadra c’era un certo Maiellaro, veramente un fenomeno. Nell’estate del ’93 il presidente Matarrese voleva fare il salto: comprò giocatori di spessore assoluto, gente come Boban e Platt. Allestì una squadra fortissima che puntava addirittura al piazzamento Uefa. Eravamo talmente tanti e poco omogenei che si retrocesse incredibilmente in Serie B. Nonostante l’inaspettata retrocessione in biancorosso mi trovai davvero bene, ho ancora contatti con gli ex giocatori e con i tifosi del Bari, sempre molto attaccati ai vecchi calciatori. Sono veramente contento che quest’anno siano riusciti a tornare in Serie B, è una piazza che lo merita”.
Cosa ti portò al Piacenza?
“Mi chiamò Giampiero Marchetti, ex terzino della Juve che io adoravo. Marchetti già aveva fatto un ammiccamento quando giocavo a Como ed era ds della Triestina, ma non me l’ero sentita di lasciare i lariani… Ci mettemmo d’accordo subito e iniziai l’ultima mia avventura a Piacenza. Cinque anni bellissimi in una società organizzatissima: c’era tutto per fare bene. Salimmo subito in Serie A, per poi riscendere l’anno dopo: all’ultima giornata del campionato 1993-94 il Milan perse a ‘San Siro’ contro la Reggiana e fummo beffati. Ricordo che dopo Milan-Reggiana, che ascoltammo tutti insieme via radio in campagna a casa di un dirigente piacentino (il Piacenza aveva giocato in anticipo di venerdì NdR), ci guardammo tutti negli occhi e dicemmo: ‘Nessuno parte da qua. Rimaniamo tutti e ci riprendiamo la Serie A’. Infatti nel 1994-‘95 ci siamo mangiati il campionato. L’ultima partita della mia carriera fu lo spareggio di Napoli vinto 3-1 contro il Cagliari di Mazzone che ci permise di mantenere la Serie A nel giugno ‘97”.
Hai giocato insieme a molti grandissimi calciatori, chi era il più forte?
“Dirceu era veramente incredibile. Ricordo che a fine allenamento radunava me, ‘Borgo’, Butti, Invernizzi, tutti i più giovani del gruppo, palleggiava e ci diceva: ‘Dai facciamo cinquenta. Cinquenta forza, cinquenta’. ‘Cinquenta’ era cinquanta: dovevamo fare almeno 50 palleggi di gruppo al volo, senza far mai cadere il pallone. ‘Se facciamo cinquenta domenica vinciamo. Se facciamo 100 vinciamo sicuro’. Oltre a essere uno dei calciatori più forti con cui ho giocato, era simpaticissimo”.
E tra gli attaccanti che hai marcato?
“Sicuramente il migliore è stato Van Basten. Quando lo affrontavo era una continua ammirazione nei suoi confronti. Come toccava la palla… era anche duro, infatti ogni tanto qualche randellata toccava dargliela. Ma lui si rialzava sempre impassibile, non mi guardava e neanche protestava. Altobelli, invece, magari non gli facevi toccar palla e alla prima mezza occasione te la metteva dentro. Pericolosissimo. Ma quegli anni lì ogni domenica ce n’era uno. Magari te la cavavi con Van Basten e poi andavi a vedere il calendario, arrivava l’Avellino e aveva Ramon Diaz. Giochi contro il Verona, Elkjaer. Nel Torino c’era Schachner che andava più veloce del vento. Ogni squadra aveva il centravanti forte, bene ti andava se ne avevano solo uno. Magari stava male Van Basten, giocava Virdis: altro fenomeno. Vialli e Mancini, Aguilera e Skuhravy, Riedle… ecco Riedle nei colpi di testa è il più forte che ho affrontato. Ho marcato anche Ian Rush, che era velocissimo. In Italia fallì perché la Juve giocava con il centravanti d’appoggio e lui era perfetto per scappare in profondità. Con Serena poi botte da orbi, in campo ci menavamo proprio. Il giorno del mio esordio torno a casa e mia moglie mi fa: ‘ma cosa hai fatto in faccia?’. Io non me ne ero accorto, avevo viso e collo tutti rigati dai graffi di Serena. Lui usava molto il fisico, gomitate e sbracciate continue. Un altro così era Pruzzo, attaccante molto difficile da marcare”.
Per tutti sei “Bobo”, ma quando nasce questo soprannome?
“Da ragazzo facevo il centravanti, mi piacevano tantissimo gli attaccanti, infatti poi l’istinto in area di rigore mi è sempre rimasto. Tifavo la Juve dove giocava ‘Bobby’ Bettega. Una volta segnò un gol bellissimo di testa contro il Milan su assist di Causio. Nel weekend dopo giocammo contro i ragazzi del Milan, segnai il gol del 3-0 ed esultai come un pazzo autodefinendomi ‘Bobo Bettega’. Da lì quel soprannome mi è sempre rimasto”.