Giancarlo Fiordisaggio. Giocatore degli anni Ottanta e Novanta di Genoa, Reggiana, Carrarese e Spezia, si racconta, nel maggio del 2020, in una straordinaria intervista su “Le Bombe di Vlad”della figlia Giulia al suo papà ex calciatore. Il racconto commosso della sua carriera diventa una bellissima dedica per il compleanno del suo papà.
“Inseguivo palloni sognando Rivera. Il calcio che ho vissuto non esiste più”.
Giancarlo Fiordisaggio, classe 1963, ex calciatore professionista, centrocampista ambidestro, per tredici stagioni ha giocato in tutte le categorie con le maglie del Genoa, Reggiana, Rimini, Carrarese e Spezia, fra le tante. La sua carriera ha cavalcato prevalentemente i mitici anni ’80, gli anni di Maradona al Napoli, di 90° Minuto, di Bearzot e del tre volte campioni del mondo.
Una storia calcistica, la sua, iniziata come tanti colleghi sui campetti rionali di terra calpestati da quelle “scarpette di gomma dura”, come cantava De Gregori nella nota “La leva calcistica della classe ‘68”. Un percorso iniziato nella sua città natale, La Spezia, che lo ha portato fino all’esordio, trentotto anni fa, in serie A, acclamato da migliaia di tifosi rossoblu che gremivano il Ferraris, tempio di un calcio che fu e che proveremo a raccontare attraverso i suoi ricordi.
Partiamo dall’inizio vero e proprio. Quando hai capito che avresti voluto fare del calcio il tuo obiettivo di vita?
«Come tutti quelli della mia generazione, da bambini si giocava nel cortile con gli amici. Poi verso gli otto anni si andava a giocare nella squadra “vera”. Nel mio caso, da spezzino, sono approdato allo Spezia Calcio insieme a mio fratello Fabrizio seguendo le orme del maggiore, Riccardo. A causa del fallimento del settore giovanile della società, sono arrivato alla Migliarinese, la squadra del mio quartiere. Durante le varie partite e tornei mi sono reso conto che facevo la differenza in campo. A dieci anni riuscivo a calciare con tutti e due i piedi e proprio questa qualità è stata l’arma che mi ha permesso di arrivare così presto a giocare nei professionisti».
Per inseguire questo sogno a cosa hai dovuto rinunciare?
«Ho rinunciato a un sacco di cose. A una vera e propria adolescenza se vogliamo. A quindici anni mi sono ritrovato ad andare via di casa e a gestirmi da solo a cento chilometri dalla mia città. Sono esperienze che ti fanno crescere tutto d’un tratto. Non avevo soldi anche perché il settore giovanile del Genoa era in una situazione abbastanza critica, specialmente nella gestione dei ragazzi che venivano da fuori città come me, alloggiati in una struttura completamente inadeguata come il Pio XII. Oltretutto eravamo nel 1978, periodo difficile in cui il terrorismo e le Brigate Rosse la facevano da padrone e una città come Genova era piena di problemi. Quello però era il sogno che mi ero scelto e benché tanti miei compagni hanno preso la valigia e se ne sono tornati a casa rinunciando, io sapevo che erano sacrifici che dovevo affrontare. Avevo come unico obiettivo il calcio».
Possiamo dire che l’incontro con Di Marzio è stata la svolta decisiva per centrare questo obiettivo?
«A Di Marzio sono molto legato e sarò sempre grato perché è stato quello che mi ha dato la chance vera e propria di dimostrare il mio valore. Ricordo che era rimasto sorpreso che usassi il sinistro come il destro, tanto è vero che durante un allenamento mi aveva scambiato per mancino, proprio come fece Simoni l’anno dopo. Proprio in quell’allenamento con Di Marzio, a fine novembre del 1979, è cambiata la mia vita: dalla possibilità di essere mandato a casa, mi sono trovato, il giorno dopo, fra i professionisti. Avevo sedici anni e mezzo. Il 17 febbraio dell’80 esordivo in serie B. Tutto questo grazie a Gianni che ha creduto nelle mie potenzialità e che mi ha sempre permesso di esprimere al meglio il mio estro in campo».
Una data fondamentale per la tua carriera è sicuramente il tuo esordio in serie A, sempre col Genoa. Che ricordi hai di quel giorno memorabile?
«Ho un ricordo molto vivo ancora oggi. Ero così carico che dentro di me sapevo che non avrei sbagliato. Ero convinto che sarebbe andata bene perché mi ero creato una sorta di scudo che mi dava la forza necessaria. Il primo pallone che toccai l’avevo stoppato un po’ male, però subito avevo rimediato benissimo con un bel lancio. L’applauso dei cinquantamila presenti allo stadio mi aveva galvanizzato e mi aveva fatto rompere il ghiaccio. Mi sono sentito ad un tratto come quando giocavo nel cortile di casa, libero e spensierato. Il 2 maggio del 1982 ha buttato giù ogni tipo di barriera perché è stata una partita decisiva. Giocavo fin dall’inizio, da titolare e la posta in gioco era alta perché dovevamo vincere per forza contro il Bologna dove, fra l’altro, giocava Mancini, attuale Ct della Nazionale. Finita quella partita ho assaporato la felicità di poter dire finalmente: “adesso ci sono anche io”».
Durante la tua carriera, fra i tanti allenatori che hai conosciuto, sicuramente la triade Sacchi – Orrico – Lippi è quella che suscita maggiore attenzione. In cosa si differenziano questi tre grandi nomi della panchina?
«Sacchi l’ho conosciuto a Rimini, a novembre dell’85 e ho trovato una persona totalmente diversa dai canoni abituali degli allenatori. Molto scrupoloso, meticoloso, schematico. Forse l’unica cosa che gli mancava era il “romanticismo” sul campo. Non avendo esperienze da calciatore era un tattico, fondamentalmente. Orrico invece l’ho incontrato alla Carrarese nell’87. Una persona rivoluzionaria nel suo lavoro. Già prima di Sacchi aveva fatto il pressing a tutto campo, per dire. Di lui ricordo l’istinto e la voglia di vincere. Anche perché se non vincevi trovava il modo di fartela pagare (ride, NdR). Ci pesava due o tre volte alla settimana e se non rientravi nel peso concordato erano multe e casse di Dom Pèrignon da pagare. La qualità che invece associo a Lippi è l’intelligenza. Marcello è arrivato l’anno dopo Orrico, che a Carrara era considerato come un re per aver vinto il campionato. Fare meglio durante il suo primo anno di C1 era dura. Lippi intelligentemente è venuto da me, che ero il capitano, chiedendomi che cosa poteva fare per aiutarci come squadra. Gli ho suggerito di toglierci la pesata settimanale assicurandogli che in questo modo la squadra lo avrebbe seguito in tutto e per tutto e così infatti è stato. Il suo primo discorso in ritiro fu proprio relativo alla levata della peso e nello spogliatoio ci fu un boato di gioia. Quell’anno è stato molto bello e alla fine della stagione Lippi iniziò ad allenare la serie A».
Essere il capitano della Carrarese ti rendeva orgoglioso o era una responsabilità che ti pesava?
«Essere il capitano di una squadra mi ha sempre gratificato. Fin da bambino avevo la fascia di capitano, anche nella Primavera del Genoa. Ho sempre guardato, forse sbagliando, più al risultato di squadra che al mio individuale».
In cosa si distingue il calcio vissuto da te e quello che si trovano a sognare i ragazzini di oggi?
«Il calcio che praticavo io non esiste più. Mia mamma, per fare un esempio, non spendeva soldi per mandarmi a una scuola calcio. Si giocava per strada anche perché le strutture erano quelle che erano: campi di terra e a volte nemmeno lo spogliatoio per cambiarsi. Il calcio di oggi è più tutelato, sotto ogni punto di vista. Anche negli allenamenti, nelle cure, nell’alimentazione e nell’abbigliamento. Non esistevano i procuratori, quindi eravamo in mano alle società che decidevano il nostro destino senza che si potesse replicare. Sicuramente è stato un calcio più vissuto, più romantico, dove gioivi della vittoria come squadra, perché eravamo stati cresciuti così. Avendo poco da bimbo, già solo giocare in un campo d’erba, con le scarpette nuove e di marca per me era qualcosa di incredibile. I sogni da bambino, per tutti quelli della mia generazione, erano quelli. Non so un ragazzino di oggi cosa desideri. Ha già tutto questo».
Il tuo idolo calcistico indiscusso?
«Da ragazzino tifavo Milan quindi avere come mito Gianni Rivera è stato forse un passaggio automatico. Di lui mi piaceva soprattutto la fantasia e l’eleganza. Durante il primo anno Allievi a Genova, quando avevo quindici anni, giocavo come centravanti, ma pur di avere la maglia numero dieci come Rivera ho cambiato modo di giocare diventando centrocampista».
La vita da calciatore cosa ti ha insegnato maggiormente?
«Il calcio ti insegna ad avere cura di te stesso, la disciplina, a stare in mezzo agli altri, la condivisone delle emozioni più belle e più brutte. L’amicizia, sopra ogni altra cosa. A distanza di quarant’ anni se incontro sui social qualche ragazzo che ha giocato con me ricordiamo subito tutto quello che abbiamo vissuto insieme sui campi come se fossero passati due giorni».
A te il calcio ha più dato o ha più tolto?
«Il calcio è anche una fabbrica di illusioni perché non tutti ce la fanno purtroppo. A me posso dire che ha più dato perché alla fine il mio sogno l’ho raggiunto. Sono riuscito a giocare in tutte le categorie, dalla prima, quando avevo quattordici anni, fino alla serie A. Ho fatto anche la Nazionale Militare, la Nazionale juniores e sono stato convocato nella Nazionale Under 21».
A proposito della gestione totale delle società sui calciatori negli anni ‘80, ripensi mai a come sarebbe potuta andare diversamente la tua vita, con scelte diverse da parte di alcuni dirigenti?
«Certamente. Per esempio, dopo il mio esordio in serie A nell’82, la domenica dopo non ho giocato da titolare e mi ero quasi arrabbiato, ma all’epoca c’erano precise gerarchie da rispettare nelle squadre e noi giovani non eravamo troppo considerati. Sono entrato solo a venti minuti dalla fine. L’ultima giornata a Napoli al San Paolo però è stata fondamentale perché ci siamo salvati e se non avessimo pareggiato in quella partita il mio esordio nella massima categoria si sarebbe vanificato. Ci siamo salvati a tre minuti dalla fine. A Napoli è stato il coronamento di tutto. Sentivo di aver raggiunto la vetta più alta. L’anno dopo però sono stato chiamato per il servizio di leva e sono stato dato in prestito alla Rondinella. Ancora oggi sono convinto che se fossi rimasto a Genova, la mia carriera sarebbe andato diversamente».
Per ironia della sorte, hai iniziato a dare i primi calci al pallone nella squadra della tua città, lo Spezia, che è la solita che ti ha accolto per la tua ultima stagione da professionista, nel ‘93. Un cerchio perfetto che si è chiuso come speravi tu?
«In parte si, perché ho indossato nuovamente quella maglia bianca che sognavo fin da bambino. Tornare a giocare al Picco, dove facevo il raccattapalle da ragazzino, è ad oggi un’emozione imbattibile. D’altro canto è anche vero che quell’anno giocai gratis con la promessa che se fossimo riusciti a salvarci dalla retrocessione avrei avuto il contratto per le stagioni successive. Ci salvammo, ma quelle promesse non furono mantenute. Se non è bastato giocare senza percepire alcuno stipendio, nella propria città, conseguendo oltretutto il risultato prefissato, sinceramente non so cos’altro potevo fare. Questa ferita mi ha provocato un totale rigetto per il calcio al punto che ho deciso di abbandonare. Questo rimane a oggi il mio più grande dispiacere: aver interrotto la mia carriera a soli trent’anni quando ero ancora nel pieno della forma e potevo dare ancora moltissimo».