“Tempo. Maledetto tempo”. Diceva così Francesco Totti il giorno del suo addio al calcio, sopraffatto da quello che probabilmente è il peggior nemico dell’uomo, capace di togliergli la gioia di fare quello che più amava fare: tirare calci ad un pallone, meglio se sul prato dell’Olimpico, pronto allora a tributare il giusto tributo al suo ottavo re.
Il tempo. Una brutta canaglia. Impossibile da sconfiggere. Per quanto uno ci provi, lui scorre, continuamente, inesorabile. Rosicchiandoci anni di esistenza, e riducendo le possibilità di autodeterminazione che la nostra vita ci concede.
Francisc Scott Fitzgerald, nel 1922, scrivendo “Il curioso caso di Benjamin Button” ci offre un’altra visione del tempo, rovesciata: scoprendo poi che nemmeno questo muta la sua inesorabilità.
C’è chi però con il tempo ha deciso di farci i conti, in maniera onesta, senza sfidarlo. Marco Ballotta lo ha fatto. In base al suo lento trascorrere ha dimostrato resilienza, rimodulandosi e, talvolta anche, reinventandosi. Giocandosela alla pari, a carte scoperte. E regalandoci quanto di più simile all’eternità, almeno calcisticamente parlando, abbiamo visto. La partita è ancora aperta, ovviamente. Nessuno sa come andrà a finire. Ma al momento il risultato è: Tempo 0 Marco Ballotta 2. E palla al centro.
Marco Ballotta è il giocatore più “anziano” (anche se sarebbe meglio dire “con più anni”, ma va beh) ad aver disputato una partita di serie A. L’11 maggio del 2008, allo stadio Luigi Ferraris di Genova, ha esattamente 44 anni e 38 giorni. Chiude portandosi pure a casa il clean sheet, contro uno sperimentale Genoa di Gianpiero Gasperini.
Marco Ballotta è anche il giocatore più anziano ad aver disputato una partita di Champions League. Pensavamo che giocare la Coppa dei Campioni a 43 anni fosse roba da calcio degli anni ’60, a tutti verrebbe quasi in mente gente come Puskás. Invece no. Spetta a lui questo primato, ottenuto, a proposito di Puskás, al Santiago Bernabeu, al cospetto di un impietoso e truce Real Madrid, che lo buca 3 volte con Julio Baptista, Raul e Robinho.
Ma c’è un altro primato che Marco Ballotta vanta: quello del minor numero di reti subite in un singolo campionato professionistico. È il 1990. Il suo Modena, un meraviglioso Modena allenato dal Renzaccio Ulivieri, chiude un campionato, ovviamente trionfale, con appena 9 gol subiti. Solo 2 di questi incassati al Braglia, la casa dei canarini.
I primi due sono record di longevità, di conservazione, di persistenza e di sfrontataggine. Arrivati però dopo quel terzo primato, che ci dicono tanto sulle qualità di questo portiere, che a discapito del suo “misero” 1 metro e 80, porta con sé una splendida reattività, una straordinaria intelligenza tattica e, soprattutto, un mirabile senso del lavoro. Con la voglia costante di migliorarsi sempre, in ogni allenamento, in qualunque momento.
Nessuno ora si sorprende: altrimenti, al di là del già citato tempo e dell’età, non arrivi a vestire maglie prestigiose, come quelle di Parma, Brescia, Lazio e Inter (in rigoroso, e non casuale, ordine sparso).
C’è stato un momento però in cui, mai come in questo caso, possiamo dire che “nessuno se lo sarebbe mai aspettato”. Ad inizio carriera, infatti, il giovane Marco è un discreto attaccante del Boca San Lazzaro, storica formazione dilettantistica della provincia di Bologna. Un giorno accade una cosa comune, che come spesso accade nelle grandi storie, si dimostra invece essere un fondamentale turning point: si fa male il portiere, del Boca San Lazzaro. E i cambi sono finiti, un grosso guaio!
Senza alcun dubbio i compagni si voltano verso lui, che ogni tanto in allenamento si diverte, con ottimi risultati, a parare i tiri dei compagni. E a cui forse, anche solo per un’istante, è passato per l’anticamera del cervello quel pensiero lì. E lui, prontamente, prende i guanti e va in porta. E da quella linea, che va da palo a palo, praticamente non si muoverà più.
Un provino, nella stagione 1981-‘82, lo porta addirittura al Bologna. E da lì in poi è tutta un’altra storia. Una storia non tutta o sempre in discesa, sia chiaro. Tanti gli ostacoli e i vicoli ciechi che Marco ha dovuto superare.
Con il Bologna, innanzitutto, non vede mai il campo. Il trasferimento al Modena sarà il vero e proprio trampolino, in grado di annullare la falsa partenza in rossoblù. Dopo gli anni di gloria e trofei a Parma, seppur come secondo, di Taffarel prima e di Bucci dopo, si sporca i guantoni tornando in provincia, e collezionando più amarezze che gioie, con Brescia e Reggiana. Torna a vincere alla Lazio, da 12esimo di Marchegiani, e decide di provare l’ebbrezza della grande squadra, accettando la chiamata nientepopòdimenoche dell’Inter. Anni bui, anni più neri che azzurri. Non sente la fiducia vera, ha la sensazione di essere stato semplicemente chiamato per esserci, non per dare una mano.
C’è ancora Modena ad offrirgli una seconda chance. La cavalcata con De Biasi fino alla serie A difficilmente se la scorderà qualcuno, in quella zona di Emilia. Ma la retrocessione dei canarini, nel 2004, e il ritorno a fare panchina, sembrano scrivere la seconda data, nella carriera di un estremo difensore di già 37 anni.
Ma il tempo, come dicevamo, è un fedele compagno di viaggio, con cui condividere un percorso, accettando ciascuno i limiti dell’altro. Si reinventa nuovamente Marco, stavolta a Treviso. Dove trova un’altra, clamorosa, promozione. La serie A torna ad accoglierlo. La Lazio decide di tesserarlo, punta sulla sua esperienza per la propria opera di rinnovamento. Ma quale 12 esimo! Delio Rossi lo inserirà 39 volte nella lavagna degli 11 titolari. Lui ha 43, 44 anni. Ma il tempo, come detto, sta soffrendo contro di lui. Come mai ha fatto contro altri avversari.
Poi arriva, però. Arriva anche lui. A presentarti il conto da pagare. E quasi tutti, inconsciamente, metterebbero già mano nel taschino, alla ricerca del portafoglio. Non Marco. Lui no. Non si arrende. Basta calcio professionistico, l’agilità, bisogna ammetterlo, non è più quella di una volta. Basta così, a posto. E forse è proprio questo a fare la differenza davvero. La sua costante capacità di fare i conti prima di tutti con sé stesso. Accettando lo scontrino finale. Nel 2008 Marco Ballotta viene tesserato dal Calcara Samoggia, club bolognese di Prima Categoria.
Passa quasi inosservato, in un primo momento, il suo tesseramento. L’idea è quella di un ex professionista che vuole semplicemente divertirsi un po’, dopo tanti anni da soldato. Lui si presenta così, a uno spogliatoio convinto di aver messo la porta al sicuro:
“Ah perché voi ragazzi pensavate davvero che fossi venuto a fare il portiere? Ahahahahah! Ma sù, per favore, non scherziamo. Se c’è bisogno per carità, eh. Mi rendo disponibile. Ma io oramai c’ho 45 primavere. Io ho passato una vita a balzare di qua e di là, a prendere botte, a raccogliere palloni dal sacco. Pensate sia venuto qui per farlo, magari contro ragazzini che potrebbero essere miei nipoti? Nossignori, suvvia. Io sono qui perché a 45 anni ho ancora dei sogni. E sento di avere forza e tempo per realizzarli. Forse non lo sapete, ragazzi, ma io mica facevo il portiere. Ero un attaccante! Quanto mi piaceva, quel brivido di fare gol. Mi ricordo ancora, forse. Quindi, ora che ho anche l’esperienza di una vita da portiere, vi ruga se faccio io qua il centravanti?”
Segnerà, secondo dati probabilmente approssimativi, qualcosa come 25 gol in 37 partite. Capocannoniere del girone. Stavolta è il tempo a dover raccogliere la palla da in fondo al sacco. Perché ha vinto ancora lui.
Nel 2019, a 50 anni, torna a rimettersi i guantoni, ma per sedersi solamente in panchina, e lasciare spazio a tal Cacchioli, secondo portiere, titolare dopo l’infortunio del numero 1. In una squadra, il Castelvetro, di cui Marco Ballotta è presidente, direttore e, ovviamente allenatore dei portieri.
A fare il dirigente, il luminare ad alti livelli, ci ha provato. Ma si è sempre scontrato con qualcuno, con inequivocabili dimissioni subito dopo. Prima a Modena, casa sua, dove dura appena 35 giorni. Poi a Varese, responsabile dell’area tecnica. Un anno e qualcosa, prima di alzare i tacchi di nuovo, e dire “adios”. Non è questione di essere scorbutici, o di avere un brutto carattere. È questione di idee, di condivisione e di visione. Immaginate di essere un presidente, e di dover spiegare al vostro direttore, il signor Marco, che una tale cosa è impossibile, non c’è modo, o, peggio ancora, manca il tempo.
“Presidente, sapete che bevute che mi ci sono fatto io con quello che voi chiamate Tempo?”