Travolto da una sanguinosa guerra civile, El Salvador sorprendentemente si qualificò per la Coppa del Mondo in Spagna nel 1982. All’esordio hanno perso 10 a 1 con gli ungheresi. Ma quel gol, l’unico del Paese ai Mondiali, divenne una leggenda.
Il rivoluzionario Farabundo Martí (a sinistra) e l’arcivescovo Óscar Romero, ucciso dagli squadroni della morte e roclamato santo da papa Francesco il 14 ottobre 2018
Come nel resto della ribollente America Latina degli anni ’70, è stata la patria di numerose organizzazioni guerrigliere che hanno concretizzato i loro sogni di uguaglianza in punta di fucile. I gruppi e le scissioni di quei gruppi lo hanno diviso ancora di più. E quel divario durò dodici anni da quando scoppiò nel 1980. Inutile citare gli schieramenti, semplici nomi combattivi che dimenticheremo nella frase successiva. Vale la pena suggerire l’entità del conflitto: 100mila morti. Gli unici momenti di pace che ci furono in quegli anni tempestosi, miraggi tra tanti commando e prigioni clandestine, furono forniti dalla nazionale di calcio.
Uno, la storia di un gol, è una sorta di documentario che racconta l’epopea di El Salvador in quella che fu la seconda qualificazione nella sua storia a un Mondiale, Spagna 1982, dalle qualificazioni alle tre partite giocate in quel torneo. È la storia di un attimo, un attimo che tuttavia porta sulle spalle l’eterno che sopravvive attorno a una partita di calcio. Ancora oggi si possono leggere tantissimi messaggi di gratitudine verso quei calciatori, che per due anni furono la consolazione popolare di una nazione devastata dall’orrore.
I calciatori si recarono in Spagna consapevoli dell’incendio che assediava le strade del loro Paese, forse con l’obbligo in più di riparare qualcosa di quell’identità che la guerra gli stava portando via. Perché le bombe si fermarono durante le partite della nazionale, vere e proprie tregue non concordate tra le due parti. Nelle qualificazioni lo stadio nazionale era pieno ad ogni partita. Non è mai avvenuta alcuna sparatoria lì. A El Salvador è rimasto l’unico posto destinato alle squadre della Concacaf, quel posto che non poteva essere il Messico di Hugo Sánchez. L’impresa non l’aspettavano nemmeno gli organizzatori dei Mondiali, che hanno dovuto ridipingere l’autobus della delegazione, che avevano già disegnato con i colori messicani.
Il viaggio fu un susseguirsi di fermate inutili; i giocatori avevano dai cinque ai sei mesi di stupendi arretrati, arrivavano in Spagna alla deriva, dovevano restare in un poligono di tiro alla periferia di Madrid, senza gagliardetti da scambiare con i rivali prima delle partite, né palloni per allenarsi. Come se non bastasse, gran parte della stampa internazionale definì i giocatori guerriglieri. Per questo motivo si prevedeva fino all’ultimo il ritiro di El Salvador, i cui dirigenti non si sono impegnati molto nella pianificazione del viaggio, anzi, sono stati sospettati di aver manipolato i fondi raccolti per la squadra. Le strategie di raccolta fondi sono state molto varie: dalle donazioni presso McDonald’s ai contributi degli imprenditori. “Mancavano i soldi e i leader viaggiavano con mogli e figli”, affermano i protagonisti di questa storia.
Il 25 giugno 1986, La Selecta giocò nuovamente una partita di Coppa del Mondo dopo dodici anni. A differenza di quanto accaduto in Messico 1970, in Spagna riuscì a segnare un gol per la prima e unica volta nella massima competizione. Quel giorno l’Ungheria li batté 10 a 1, la più grande vittoria mai registrata in una Coppa del Mondo. Quello (Luis Ramírez Zapata), però, ha dato vita al mito di quella squadra, oggi faro ed emblema sportivo di un Paese che la ricorda tra tristezza e gratitudine. Simbolo della lotta contro le avversità, a questi giocatori mancava la spinta di una struttura che potesse consolidare un futuro simile. Jorge el Mágico González, con una carriera eccezionale nel calcio spagnolo, Jaime La Chelona Rodríguez e Norberto el Pajarito Huezo sono stati le punte di diamante di una squadra che è rapidamente affogata nell’aggettivo di “buona spazzatura”.
Lo sguardo compassionevole ed eroico impiegò alcuni anni per fermentare. Come spesso accade in altri paesi a lungo oppressi dalla violenza, solo il passare del tempo è riuscito a rimettere le cose al loro posto. Dopo 10 gol contro l’Ungheria, infatti, a nessuno dei giocatori è stata risparmiata la derisione della stampa locale, che ha alimentato la teoria della spazzatura e della vergogna nazionale. Nel bunker salvadoregno, le valutazioni che i media davano a ciascuno dei giocatori sono state discusse con reciproca compassione. Il più punito è stato il portiere Luis el Negro Guevara Mora, appena ventenne, che pensava di abbandonare il calcio e di non tornare nel suo Paese.
Se per gli ungheresi era stato un peccato, li aspettava l’inferno contro il Belgio, secondo d’Europa, e l’Argentina di Maradona, campione del mondo. L’alibi unanime della squadra dopo la prima partita – nervosismo, ansia, inesperienza – è stato adeguato a quanto accaduto nelle due successive. Perché contro i belgi, sconfitto 1 a 0, il Salvador ha perso più per mancanza di mira negli ultimi metri che per la spinta insostenibile dei rivali. E gli argentini hanno dovuto sudare per conquistare la vittoria, 2 a 0, nell’ultima gara. Le testimonianze di quella partita contro la squadra di Menotti si basano sugli stessi aneddoti: il presagio di Maradona – “Se l’Ungheria ne ha fatti 10, io ne farò 11” -, la resistenza di Diego nel sopportare i calci senza lamentarsi – “Noi lo colpivamo e lui si è alzato, senza lamentele né rimproveri” – e le intimidatorie vessazioni di Tolo Gallego – “guerriglieri di merda, vi uccideremo”.
Disprezzo e indifferenza hanno assalito i giocatori al loro ritorno. La storia della squadra di football di una nazione ferita può essere vista attraverso le lenti della nostra storia. Guarda caso, in Argentina si sono levate numerose voci critiche nei confronti della nazionale dell’82 per aver partecipato ai Mondiali nonostante l’inferno delle Malvinas. La differenza è sostenuta dal riconoscimento che gli attori e il resto della società salvadoregna hanno dato al conflitto civile. Non c’erano strategie di occultamento, nessuno sguardo laterale. Il calcio era un impacco di acqua fredda sull’isteria marziale che stava decomponendo le strade. Il giorno in cui El Salvador segnerà un gol, quel Paese avrà dimenticato tutto e si lancerà un sorriso.
Mario Bocchio