14 Aprile 1974, in serie A la Lazio di Maestrelli e Chinaglia è prima e ha tre punti sulla Juve di Anastasi e Altafini, terzo il Napoli ed ultimo il Foggia, coinvolto in due scandali e già spacciato in classifica. Il Bologna lo allena Bruno Pesaola al secolo il Petisso, in avanti ha Savoldi che segna e Bulgarelli che dipinge ma nonostante gli assi i rossoblù navigano a metà classifica. Il 14 aprile è una domenica, e in programma c’è la venticinquesima giornata di campionato, fischio d’inizio fissato alle ore 15,30. La Lazio ospita il Verona e vincerà in rimonta dopo aver chiuso il primo tempo sotto perché Zigoni è un diavolo dannato per davvero; la Juventus riceve il Cagliari che sfiorerà l’impresa perché solo nel finale al Comunale un gol di Franco Causio pareggerà il fulmine di Rombo di Tuono, alias Gigi Riva. Si rivelerà giornata cruciale nella corsa allo scudetto. Cruciale anche per un’altra ragione, quella giornata numero 25 del campionato di serie A 1973-‘74.
Una giornata entrata alla storia. La prima protesta sindacale dei calciatori. Che incrociano le braccia per dieci minuti e in campo iniziano a giocare solo quando sono le lancette sono sulle ore 15 e 40. Lo ha deciso l’Aic, l’Associazione italiana calciatori nata sei anni prima, il 3 luglio 1968. Tra i calciatori costituenti presenti quel giorno nello studio del notaio Barassi c’erano tra gli altri Rivera, De Sisti, Losi, Mazzola, Sereni, Castano e a guidarli un ex calciatore, l’avvocato Franco Campana. Un’associazione che già prima di quel 14 aprile del ’74 aveva minacciato di incrociare i piedi. Come l’11 maggio del ’69: le società hanno in pugno una norma che consente loro di tagliare gli ingaggi dei professionisti fino al 40% se le presenze fossero a fine stagione inferiori alle 20 in campionato. Al sindacato ormai si sono iscritti in tanti, il fronte è compatto, in serie A e B ogni squadra ha almeno sette calciatori con la tessera Aic. Il giorno prima dello sciopero la Lega fa dietrofront e taglia la mannaia del 40%. Il fronte si allarga: sul tavolo finisce una questione giuridica di non poco conto.
Come quella del vincolo che sarebbe potuto durare in eterno: un calciatore (di A e B), sia pur professionista perché retribuito, non aveva altri diritti e tutele. I club potevano ridurre gli emolumenti grazie a multe per comportamenti e infrazioni anche veniali. Il Palermo, ad esempio, inflisse un milione di multa a Landoni perché s’era rifiutato di salutare il tecnico tra l’altro già licenziato dalla società rosanero. E andò più o meno così anche nella primavera del ’71. Un’altra minaccia di sciopero, anche questo scongiurato dopo che la Lega concede l’istituzione di “una commissione per la regolamentazione dei rapporti tra società e calciatori”. Nell’autunno dello stesso anno Romeo Benetti si rifiuta di posare per la foto dell’album Panini, l’Aic chiede che una parte dei proventi vada ai calciatori. Anni di lotte e tensioni, di scioperi minacciati e di trattative estenuanti che esploderanno nell’autunno del ’73.
A novembre all’epoca era tempo di calciomercato. L’Avellino del commendator Sibilia è in serie B. Lo allena Tony Giammarinaro che poi allenerà pure la Salernitana, e in quell’Avellino ci giocano anche Fraccapani, Ronchi e Zucchini che in seguito vestiranno la maglia granata. L’Avellino è a metà classifica e acquista dal Bologna Augusto Scala, mezzapunta e-o seconda punta romagnola, zazzera nera, giocatore di talento ma di alterno rendimento. L’anno prima ha vinto il campionato di serie B con la maglia del Cesena ma nel Bologna Pesaola non gli dà spazio. In quel novembre del ’73 è appena scattata l’operazione della firma contestuale: cioè i calciatori devono firmare il passaggio, dare il consenso al trasferimento che prima invece era obbligatorio. L’Avellino prende la metà di Scala ma Scala – uno tutto intero e tutto di un pezzo – non accetta. Si rifiuta. Dice no, ed è il primo a far saltare il banco. Scoppia un polverone, Sibilia minaccia di fargli chiudere la carriera acquistando anche la seconda metà del cartellino e il Bologna si dice d’accordo. Interviene l’Aic e intervengono i compagni: Scala non si tocca. Sibilia si ritira tra fulmini e saette, si dice disgustato. Intanto Scala resta a Bologna dove però viene emarginato, dirottato in Primavera nonostante abbia 24 anni e un talento indiscutibile. Passano i mesi, cinque mesi per la precisione, ma la situazione non si sblocca. Dopo un inutile incontro tra il presidente dell’Aic Franco Campana e Luciano Conti, presidente del Bologna, l’Assocalciatori indice una nuova forma di protesta: il ritardato inizio delle partite.
E così il 14 aprile del ’74 le squadre entrano in campo alle 15,30, ma aspettano le 15,40 per calciare il pallone. Scala ringrazierà per la compattezza dimostrata dai colleghi ma chiede loro di non scioperare più: attenderà i due mesi e poi a fine stagione lascerà il Bologna, “possibilmente senza far polemiche”, dice in tribuna. Per la cronaca, nella domenica dell’allungo Lazio, il Bologna supera per 2 a 0 il Genoa. E da quella protesta nascerà la nuova vita di Augusto Scala, a suo modo simbolo del calcio italiano.
“Gusto”, ricordi atalantini
Chi è stato Augusto Scala, che a gennaio nella sua Romagna ha festeggiato i 74 anni e c’è persino una pagina su Fb dedicata a lui? A Bergamo la risposta è una sorta di plebiscito. A Bergamo dove Scala lo chiamano ancora Gusto, per quel suo modo di intendere la vita ed il calcio. A Bergamo, lì dove ogni anno alla festa di inizio campionato riceve applausi e cori, lui che giocò insieme a Percassi, attuale numero uno del club nerazzurro. Società con la quale Scala si tolse soddisfazioni a strappi, alterni un po’ come il suo talento e il suo carattere: il gesto dell’ombrello rivolto a Di Marzio dopo un rigore segnato al Napoli, il gol decisivo nella gara spareggio che regalò la promozione all’Atalanta, la doppietta alla Lazio difesa dall’improvvido Avagliano ed il gol della speranza a Firenze. Prodezze e bizze che ai tifosi della Dea fanno ancora dire, ancora oggi “Scala? Scala è stato il nostro George Best”.
Genio e sregolatezza, gli piaceva la bella vita e gli piaceva fare il tunnel all’avversario. Era un ricamo più che uno sbeffeggio. Poteva essere un campione, ma non lui ha giocava solo a calcio. Una mezzala di talento cristallino, assoluto; geniale ma incostante come pochi. Augusto Scala non era fatto solo per il pallone. Ad Augusto Scala piaceva vivere. Semplicemente. Poco portato per allenamenti e sacrifici ma molto per il pallone al quale dava del tu. Un idolo sin dal suo arrivo a Bergamo. Arrivato dopo quel no clamoroso all’Avellino. Addosso la maglia numero otto e a volte la dieci, qualche volta pure la nove: 36 reti in nerazzurro in sette stagioni e una foto accanto a Pelè che tiene gelosamente sul comodino. Quello che fece dire una volta ad Anastasi: “Chi è stato il più grande calciatore italiano di sempre? Non ho dubbi, il più grande è stato Augusto Scala, un personaggio incredibile: prima di scendere in campo noi ci davamo l’olio per i massaggi, lui invece usava l’olio abbronzante”. Che forse per questo quel giorno di novembre del ‘73 Augusto Scala rifiutò l’Avellino.