Chi li ha visti giocare li ricorda con sarcasmo. Chi li ha conosciuti si divide tra l’ammirazione e il disprezzo. Non sono stati capaci d’altro che vivere delle loro speranze, diventando l’esempio umano che El Pibe de Oro non è mai stato.
Nell’anno 1979 un giornalista argentino portò la sua telecamera con pellicola in bianco e nero nel popolare quartiere di La Paternal a Buenos Aires, dov’era andato per incontrare i fratellini di un astro nascente del calcio mondiale. Raul e Hugo Maradona, che all’epoca avevano rispettivamente 13 e 10 anni, fecero qualche palleggio tra loro, mentre la voce fuori campo pronunciava una verità quasi profetica: «Questi sono due bambini normali». I bimbi, con una mimica facciale che il loro notissimo congiunto, allora 19enne e già bomber dell’Argentinos Juniors, avrebbe presto reso famosa, si prestarono alle domande faticando a nascondere la timidezza.
«Con un fratello così, tutto è più bello – diceva Raul, soprannominato Lalo – appena lo vedo su una rivista, corro a comprarla per metterla in una carpetta». «È il miglior fratello del mondo – confermava Hugo, che tutti chiamano El Turco – ci regala di tutto, scarpette, palloni, ci piace tutto». «Speri di diventare come lui?», chiedeva poi intervistatore ancora a El Turco, che muoveva i primi passi nelle giovanili dello stesso Argentinos. «No, è impossibile. Non ci ho mai pensato, perché mio fratello è un marziano».
Aveva ragione il piccolo Turquito. Suo fratello era ineguagliabile e dietro di sé lasciava solo speranze impossibili. Ma aveva anche mentito, perché quei due «bambini normali» sognavano il futuro di prati teneri e stadi pieni che riempie gli occhi a milioni di loro coetanei. A differenza degli altri, però, il cognome enorme che questi due portavano in groppa avrebbe dato loro la possibilità di provarci che quasi nessun altro ha avuto. Una possibilità che, per quanto gli fosse riproposta, loro hanno sempre sprecato.
Se il Bicho di La Paternal, nomignolo locale dell’Argentinos, fu il primo a credere – o meglio sperare – nel talento del Turco, che invece gli regalò solo un gol in tutta la sua carriera di centrocampista, a scommettere su quello di Lalo fu nientemeno che il Boca Juniors. Il premio per la sua destrezza indubbia fu la maglia da titolare in ben due partite nel corso dell’86, occasioni in cui naturalmente non toccò quasi mai palla, ma dove raggiunse un obiettivo che resta una lacuna nella carriera di Diego: sfidò il River Plate in Copa Libertadores, entrando come supplente al 27′ minuto di una partita iniziata col Boca già eliminato dal torneo e il River, che poi vinse uno a zero, già qualificato. Era il 20 agosto del 1986.
Dati i risultati, l’anno successivo – come racconta “Storie di Calcio” – entrambi i nuovi Maradona s’involarono verso l’Europa, atterrando Lalo al Granada, in Spagna, dove giocò un anno, ed il Turco all’Ascoli. Più precisamente, Hugo fu comprato dal Napoli, del quale a malapena fece in tempo a provare la maglia, prima di essere girato in prestito ai marchigiani. La parte sensazionale della storia, però, passa ancora una volta per Lalo, che nel contratto col Granada fece inserire una clausola in cui si obbligava la squadra a farlo giocare almeno una partita, regola che fu rispettata con un’amichevole d’esordio, in cui i fratelli Diego e Hugo corsero al suo fianco in bianco-rosso.
Se il fatto che Diego Maradona non sia mai sceso in campo in una partita di Libertadores è noto a molti, quasi sconosciuto resta il dato per cui El Diez abbia giocato una partita con il Granada e che lo abbia fatto in compagnia dei due fratelli minori, segnando un gol su punizione con indosso la maglia numero 9 e la fascia di capitano al braccio. Era il 15 novembre del 1987 e gli svedesi del Malmö lottarono, ma persero 3 a 2 davanti ai 15 mila fanatici accorsi allo stadio Los Carmenes per l’evento epocale.
Da quella volta in poi, solo un’altra squadra ebbe la temerarietà di scritturare due Maradona, senza che tra loro ci fosse alcun Diego, anche se lo fece a distanza di qualche anno tra un contratto e l’altro. Si tratta dell’Avispa Fukuoka, che Lalo non riuscì a smuovere dalla Serie B giapponese, la J League Seconda Divisione, ma per cui El Turco segnò addirittura 15 reti, diventando l’indiscusso idolo della promozione in Serie A. Il miglior ricordo di sé, Lalo lo ha lasciato al Deportivo Municipal di Lima, in Perù, gloriosa squadra incaica, arrivata alla Serie B locale proprio con Raul tra i suoi giocatori.
Lalo formava con l’arrogante centravanti locale Roberto Martinez la famosa Coppia Mama (Maradona–Martinez), considerato uno dei maggiori flop del calcio peruviano. «Il suo merito più grande – ricorda oggi un fedele abbonato agli spalti dell’Ivan Elias Moreno, su cui siedono ogni due settimane almeno 12 mila paganti scatenati – fu quello di permettere alla tifoseria di cantare “Maradò, Maradò”, come facevano quelli del Boca con suo fratello».
Prima di Lima, Raul aveva provato la sorte in Canada, deludendo nel ’90 i tifosi del Toronto Italia. In quella stessa città, sarebbe arrivato quattro anni dopo anche suo fratello El Turco, vestendo però i colori degli acerrimi nemici del Toronto FC, nei cui derby con l’Italia si mobilitano squilibrati da tutto l’Ontario e per cui segnò solo un gol in 22 partite. Per lui ormai era la fine della carriera. Restava solo un anno al Consadole Sapporo, ancora nella seconda divisione giapponese, mentre Lalo tornava a casa a Buenos Aires su chiamata del Laferrere e della sua temibile tifoseria. Poi, provava un’ultima avventura internazionale col Deportivo Italia di Caracas, in Venezuela, dove riuscì a non essere all’altezza di una delle peggiori squadre di tutto il Sudamerica.
Le ultime cose che si sanno di lui è che come El Turco e come El Diego ha fallito la carriera da allenatore. Si è reinventato nell’organizzazione di tornei di calcetto, dove saltuariamente viene bersagliato da accuse di truffa, che con quel suo sorriso ingenuo tenta sempre di far passare per faciloneria.
Una volta, un gruppo di ladri armati fino ai denti è salito a bordo della sua Volkswagen Bora e l’ha rapito insieme alle sue figlie. Dopo poco, Lalo si è buttato dall’auto in corsa, abbandonando le ragazze in mano ai delinquenti. Mentre i telegiornali informavano della liberazione di entrambe, uscite illese da quell’incubo, Raul tentava di far passare il proprio gesto come un atto eroico, studiato per salvare la vita di tutti.
La storia dei piccoli Maradona è triste, piena di speranze morte e di rancori fortissimi, ma è in fondo più vera di quella del gran Diego, nato nel niente ed arrivato al cielo. Creatore di vita con giocate impensabili. Impiastro e nanerottolo, morto di droga e risorto con valore dopo mille fallimenti, tanti e così belli, che a volte il tutto stenta ad essere verosimile o per meglio dire, umano.