Johan Cruijff, l’olandese volante, se n’èandato a 68 anni il 24 marzo del 2016.
Chi il calcio lo ha vissuto da sportivo al tempo di Gianni Brera e ha visto il “Pelè bianco” in azione, non può che avere un moto di turbamento nel ricordare la sua scomparsa. Johan Cruijff è stato l’attaccante più versatile e geniale del calcio moderno, un artista della pedata che intervistato nel giugno del 1974 disse: “ Io quando gioco, non penso al denaro; né al mio, né a quello che interessa agli altri. Anche se nella mia infanzia ho conosciuto una grande miseria, quando mi trovo nello stadio vivo quell’attimo per me meraviglioso. Io sono solo col pallone e intanto centomila mi guardano: ebbene, allora riesco a provare la più intensa delle emozioni, riesco a trovare veramente me stesso”.
Ebbene, per tutti coloro, invece, che non sanno cosa Cruijff abbia rappresentato per il calcio e per tutti quelli che si dilettano a stilare assurde classifiche mettendolo a confronto con Pelè e Maradona, voglio chiarire il mio punto di vista. Se da alcuni decenni il calcio globale si gioca a zona, se i difensori devono anche attaccare e gli attaccanti anche difendere, tutto ciò si deve alla squadra dell’Ajax (allenata da Michels) che, trascinata da Cruijff e plasmata a sua immagine e somiglianza, ha interpretato un innovativo sistema di gioco a tutto campo preso ad esempio in tutto il mondo. Maradona, Pelè e gli altri fuoriclasse hanno lasciato un grandissimo ricordo della loro bravura individuale, delle loro prodezze personali, ma giocando nel vecchio sistema, con i vecchi schemi; non hanno inventato nulla di nuovo o mostrato un’altra via da percorrere nel gioco collettivo.
Prima di Cruijff i difensori raramente abbandonavano la loro area e, in difficoltà, rompevano l’azione dell’attaccante sparando la palla in tribuna; i centrocampisti di regia non marcavano mai gli avversari e le “punte” non tornavano indietro oltre la linea della propria metà campo.
Senza l’avvento del “Profeta del goal” (vecchio conio usato da Sandro Ciotti) con i lancieri dell’Ajax e poi col 14 della nazionale orange sulla maglia, tutto ciò non sarebbe successo e il gioco del calcio non sarebbe diventato dinamico e totale. L’idolo di Cruijff, fin da quando era bambino, fu Alfredo Di Stéfano. Quando Johan sbarcò in Spagna, nelle fila del Barcellona, indossò la classica casacca numero 9. I suoi, però, non erano compiti di semplice centravanti. Della squadra, egli era anche un regista a tutto campo che riusciva ad inserirsi nelle fasi conclusive delle azioni da lui stesso orchestrate.“Non è il numero scritto sulla schiena quel che conta per me. D’altronde il mio modo di giocare è perfettamente attinente al mio carattere: io sono un istintivo, la testa comanda e le gambe girano. Tutto qui”.
Insomma, Cruijff era un giocatore completo con doti di generosità in campo, classe e visione di gioco corale; paragonabile al fuoriclasse Di Stéfano, ma senz’altro più efficace come goleador. Riferendosi al fatto che la sua professione sportiva l’avesse portato a stabilirsi all’estero, Cruijff, spesso citava un saggio proverbio indiano: “Ognuno per trovare la vera felicità deve tornare alla terra e al sole che gli diedero vita”.
Ecco perché nel mese di novembre ho messo a dimora nel verde prato del mio giardino alcuni bulbi provenienti dall’Olanda. Con struggente nostalgia attenderò la primavera e lo sbocciare del primo tulipano arancione per provare la più intensa emozione di ritrovare lo spirito di quel ragazzo che ammiravo giocare d’istinto, ricordando a me stesso e a chi condivide questo mio scritto, la vera essenza del calcio.
Giuseppe (Joe) Bonato