Ha avuto più gioie e premi per il suo impegno sociale che nella sua lunga carriera da portiere. Astutillo Malgioglio ha giocato fino a 34 anni, vestendo le maglie di Bologna, Brescia, Pistoiese, Roma, Lazio, Inter e Atalanta ma ha evitato gol più da assistente dei deboli che da estremo difensore. Giocava nel Brescia, nel ‘77, quando la sera di Natale viene folgorato sulla via del bene per gli altri, quando fa visita ha un centro per bambini cerebrolesi.
Malgioglio ricordò l’episodio al Fatto: “Mi impressionò la loro emarginazione, l’abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un’emozione fortissima, un pugno nello stomaco, quel giorno tutto mi apparve chiaro”. Malgioglio apre dunque con i suoi risparmi un centro per la riabilitazione motoria dei bambini per offrire terapie gratuite ai disabili. Parallelamente gioca, aiuta i più deboli e studia (si laurea in medicina). Non piace a tutti: il tecnico del Brescia Perani lo vende (“Quello pensa agli handicappati anziché parare”) e lui va alla Roma: “portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della squadra dopo l’allenamento”.
Dopo la Roma sceglie la Lazio in B e quello sarà l’anno più difficile della sua vita. In Curva Nord striscioni deprecabili, non gli viene perdonato nulla, gli ultrà gli distruggono anche l’auto con mazze e bastoni: “i tifosi non mi lasciavano in pace. Criticavano il mio impegno fuori dal campo, insultavano la mia famiglia. Mi sono sempre chiesto il perché di tanto odio; non ho mai preteso applausi, solo un po’ di rispetto”. Che invece non riservano neanche alla moglie e alla figlia. Fino al giorno della rottura definitiva.
È il 9 marzo 1986 si gioca all’Olimpico Lazio-Vicenza. Il portiere è tutt’altro che sereno e compie due errori gravi che portano i biancorossi a vincere 4-3. In Curva Nord spunta lo striscione dell’orrore: “Tornatene dai tuoi mostri”. Malgioglio sbotta, uscendo dal campo si toglie la maglia, e dopo averci sputato sopra, la lancia con rabbia verso gli ultras della Lazio. Sospeso a tempo indeterminato, rescinde il contratto. All’Unità raccontò: “Mi tolsi la maglia con la consapevolezza di dire basta col calcio. I dirigenti si scatenarono e recitarono da ultrà. Proposero la mia radiazione. Quello che mi ferì di più, però, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la totale mancanza di rispetto, di solidarietà, di pietà per quei bambini sfortunati che non c’entravano niente. ‘Mostri’, così li hanno chiamati. Il giorno dopo a Piacenza ho visto i genitori di quei bambini, che mi guardavano negli occhi. Non sapevo cosa dire. Mi sono vergognato per quei tifosi. Molti di quei bambini oggi non ci sono più”.
Astutillo torna a Piacenza a dedicarsi ai suoi ragazzi a tempo pieno quando il Trap lo chiama all’Inter a fare il dodicesimo di Zenga. Lì resta cinque anni: “A volte Trap entrava nella mia stanza, si fermava sulla porta e si metteva a piangere. Non diceva niente, ma in realtà mi parlava, aveva visto in me l’uomo”. Con gli ingaggi dell’Inter rinnovai la palestra con attrezzature all’avanguardia. Riesce persino a coinvolgere Klinsmann che contribuisce alla causa con 70 milioni di lire.
Altro sliding doors: il 4 marzo 1990 al Flaminio si gioca Lazio-Inter e Zenga non sta bene, deve giocare Malgioglio. Fischi assordanti, e dalla Curva piove in campo di tutto. “Radioline, pile, bottiglie e io in piedi, senza mai cadere. L’arbitro non sospende la gara, io riesco a rimanere in piedi. Esco ferito. Il sangue che scende sul volto. La partita inizia con 15 minuti di ritardo per lancio di oggetti contro la mia porta. Mi dicono di tutto. Perdiamo 2-1 ma sono il migliore in campo. Poi restiamo bloccati negli spogliatoi per parecchio tempo. I tifosi volevano assalirmi”. Malgioglio gioca un’altra stagione con l’Atalanta, poi dice basta nel 1992, a 34 anni.
Nel 1994, per mancanza di fondi, deve chiudere la sua palestra. “Offrivo assistenza gratuita, e il denaro per un’idea del genere, l’unica possibile, non c’era più. Ho regalato i macchinari. Finché ho potuto, raggiungevo i pazienti a domicilio”. Subentra un momento difficile anche a livello personale, con un problema psicologico che lo mette a dura prova.
Ma una volta lasciatosi la crisi alle spalle, la vita continua: “Pensavo di non venirne fuori – ha detto al Corriere della Sera – Ma ora ho ripreso ad aiutare gli altri con mia moglie Raffaella e sono molto felice. Mettiamo a disposizione la nostra esperienza: il Signore mi ha dato questo talento, mi ha detto di fare queste cose e io sono contento di servirlo. Mi sento libero, mi viene naturale. Perché, come dice il mio padre spirituale, le mani bisogna sporcarsele, mettendole anche nella m…”.