Fernando De Napoli, per tutti Nando. Nato a Chiusano San Domenico, provincia di Avellino, il 15 marzo del 1964. Segni particolari: unico irpino ad aver indossato la maglia della Nazionale con la casacca dei Lupi. Il classico ruba palloni, ma con un destro di buona qualità e un tiro dalla distanza che lasciava il segno. Mirgia, settore giovanile dell’Avellino, poi la gavetta con il Rimini di Sacchi, prima del ritorno in Irpinia dove diventa “Rambo” e conquista la Nazionale.
Nel 1986 il passaggio al Napoli dove conquista due Scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa, poi, dopo i fasti napoletani, l’approdo al Milan di Capello. Poche presenze, causa un ginocchio traballante, ma tanti successi, prima di chiudere nelle fila della Reggiana.
Intervistato per il Guerin Sportivo da Nicola Calzaretta, De Napoli ripercorre tutta la carriera calcistica, senza dimenticare le proprie radici: “Da un paesino di montagna del Sud a due Mondiali, passando per Maradona. Trecento e passa partite in Serie A, più di cinquanta in maglia azzurra, un bel po’ di vittorie, tra cui due scudetti con il Napoli“.
Con un solo pensiero per la testa: diventare calciatore. “Vivevo solo per il calcio, i libri hanno preso molta polvere. Mi piaceva la Juventus, ma il sogno era indossare la maglia dell’Avellino. In piazza si giocava con il “Super Santos”. Sapessi quante volte abbiamo rotto le finestre della caserma dei carabinieri che davano sulla piazza! Partite infinite e poi a bere una spuma nel bar di mio padre. C’è ancora oggi. Lo gestiscono altre persone, ma l’insegna è la stessa: “Bar De Napoli”“.
Nel 1980 il passaggio dalla Mirgia all’Avellino. La società irpina sborsa 7 milioni di vecchie lire per accaparrarsi il giovane centrocampista: “Voglio ricordare Elio Sateriale e Gino Corrado, i miei scopritori, e mio zio Antonio Nazzaro che mi ha fatto da agente. Entro nel vivaio dell’Avellino a 15/16 anni, il primo allenatore fu Mario Facco. Ricordo le raccomandazioni sulle scarpette e sui tacchetti per non scivolare. Mi toccava giovare con quelli “a sei”, ma che dolori ai piedi. Poi le partitelle del giovedì contro la Prima squadra. Guai a fare gesti pericolosi, figurati a provare qualche giocata. Maiellaro una volta fece un tunnel a Giovannone, terzino grosso come un armadio. Non ci fu una seconda volta“.
Il 1980 è anche l’anno della penalizzazione in Serie A, ma anche quello del terremoto: “Ero molto determinato. Sono sempre stato timido, non ho mai avuto grilli per la testa. Mi allenavo con serietà e applicazione. Seguivo la prima squadra, era l’anno di Juary e del “meno cinque”. Mi piaceva vedere le partite. Ed ero davanti alla tv la sera del 23 novembre 1980, a guardare la sintesi di Juventus-Inter, quando ci fu il terremoto. Un’esperienza terribile. Avevo sedici anni. Il mio paese se la cavò, ma altri dove avevo amici e conoscenti furono distrutti. Per alcune notti dormimmo in cinque in una Renault 4. Ricordo ancora oggi il freddo pungente. A noi del settore giovanile dell’Avellino chiesero di andare a scavare tra le macerie. Ho visto i volti delle persone morte, schiacciate dai muri crollati. Ricordo molti campi di calcio trasformati in tendopoli. Una tragedia“. Le buone prestazioni con l’Avellino “Primavera” attirano le attenzioni di parecchi club.
Nel 1982 arriva il trasferimento, in prestito, al Rimini in Serie C1: “Sacchi mi aveva visto l’anno prima alle finali “Primavera” Cesena-Avellino, lui allenava i romagnoli. Mi volle a Rimini, io uscivo dalla mia provincia per la prima volta. Ero disorientato. Mi aiutò molto un altro ragazzo del Sud che poi ritrovai anche ad Avellino: Marco Pecoraro Scanio“. Un anno in Romagna (30 presenze e 2 reti) poi il ritorno alla base.
Ma non sono tutte rose e fiori, almeno inizialmente: “Veneranda non mi vedeva. Per nulla. Mi ero ridotto a fare il raccattapalle. Poi fu esonerato e al suo posto chiamarono Ottavio Bianchi. Gli piacqui subito, chissà, forse gli ricordavo lui da giocatore. Mi dette consigli utili. Fu lui a farmi debuttare“.
La data che rimane scolpita per sempre è l’11 dicembre 1983, Roma-Avellino. Per De Napoli è l’esordio in serie A: “Olimpico di Roma, contro Falcao e Cerezo. Ero emozionatissimo. Pativo le partite, avevo paura di non rompere il fiato. Allora mi spalmavo il “Vix” sul petto oppure avvicinavo al naso un po’ di cotone imbevuto nello spirito. Si perse, ma per me era finalmente arrivato il momento della svolta dopo tre mesi difficili in cui avevo chiesto di essere ceduto“.
Il resto dalla storia la scrive quel ragazzo venuto da un paesino di montagna, partito dalla provincia di Avellino fino ad arrivare in Nazionale: “Ero già nell’Under 21 di Vicini, nel 1986 arrivammo secondi agli Europei. Bearzot mi convocò per il Mondiale in Messico, debuttai con la Cina nell’ultima amichevole e poi giocai da titolare tutto il torneo. Per me fu un trionfo. Il mio paese, Chiusano, fu invaso da tv e giornalisti“. Nelle tre stagioni con la casacca bianco-verde De Napoli colleziona 80 partite ufficiali (73 in campionato e 7 in Coppa Italia) e 3 reti.
Nell’estate del 1986 arriva il passaggio al Napoli, costo dell’operazione: 6 miliardi di lire. Per De Napoli è giunto il momento di spiccare il volo: “Sono stati anni vissuti da “Lupo”. Giocare al Partenio era il massimo. Dal campo si vedeva la collina del mio paese. La squadra era tosta, dura. Il terreno di gioco era sempre bagnato, anche quando c’era il sole. Si entrava in campo sulle note di “Yellow Submarine” dei Beatles. La gente riempiva lo stadio, appassionata ed esigente. E tu che eri di quelle terre dovevi dare il duecento per cento. In quei tre anni per i tifosi sono diventato Rambo. Ma l’orgoglio massimo è aver indossato la maglia della Nazionale da giocatore dell’Avellino. Prima di me, nessuno“.