Ci sono i pionieri e ci sono le pioniere del calcio. Donne che nei primi anni ’30 provarono a lanciare anche in Italia il calcio femminile. Non riuscendoci perché quella disciplina che oggi è divenuto fenomeno mediatico fu in un certo senso stoppata dal regime fascista. Una storia che sa di incredibile e che si sarebbe perduta senza le ricerche di Marco Giani e senza l’intraprendenza di Giovanni Di Salvo che quelle vicende ha narrato in un testo (Le pioniere del calcio. Storia di un gruppo di donne che sfidò il fascismo, Bradipolibri).
Tutto nasce nel 1933 a Milano quando quasi per diletto un manipolo di giovani donne inizia ad allenarsi con regolarità seguite con curiosità dai giornali del tempo. La presenza di quella notizia su una stampa fortemente condizionata dalla censura è un chiaro sinonimo se non di accondiscendenza, di benevolenza del fascismo verso quelle ragazze. Alla guida del calcio italiano c’era Leandro Arpinati che qualche mese dopo, le date sono importanti, fu defenestrato a favore di Achille Starace e Giorgio Vaccaro. Nella primavera del ’33 le donne calciatrici milanesi costituiscono una compagine, la Giovani Calciatrici Femminili Milano che arriva anche a disputare un’amichevole fra squadra A e B con regole in linea col tempo: allenamenti a porte chiuse, pochi uomini ammessi e in porta un maschio perché si pensava così di evitare il contatto fisico fra donne.
Quelle pioniere milanesi trovarono presto delle emule: spulciando sulla stampa dell’epoca come ha fatto il ricercatore Marco Giani, si trovano tanti articoli – molti di colore e con un taglio più di curiosità che di sport – in cui si narrano di donne che vogliono giocare a calcio. Poche lo fecero realmente. Fra queste un manipolo di giocatrici di Alessandria che nell’estate del 1933 iniziarono ad allenarsi con i colori bianconeri della Serenissima. Qualche partita con le giovanili e poi iniziò il conto alla rovescia per la prima sfida di calcio femminile fra Gfc Milano e Serenissima Alessandria.
In un primo momento quelle pioniere dovevano affrontarsi in terra lombarda ma ben presto si decise di giocare ad Alessandria il primo ottobre come riportano trionfanti le cronache dell’epoca. Poche righe di testo pochi giorni prima del match annunciarono l’annullamento della sfida. Il 7 ottobre 1933 poi fu pubblicata una direttiva dell’Ufficio sportivo Fasci Combattimento di Alessandria che, richiamando una direttiva del Coni vietò la costituzione di club di calcio femminile. Sotto quel richiama la comunicazione della cessazione di ogni attività della serenissima. Non sappiamo se le notizie siano correlate e collegate, quel che è certo che l’aria era cambiata e che il Coni aveva cambiato rotta: non più il calcio ma altri sport dovevano praticare le donne.
Nuoto e atletica in primis. Le pioniere alessandrine si attennero a quella direttiva e una di loro divenne una fuoriclasse del getto del peso. Amelia Piccinini infatti era una delle componenti la squadra femminile della Serenissima. La chiusura del club la spinse prima al Pentathlon moderno dove vinse il titolo italiano nel 1935 e poi all’atletica dove la sua carriera culminò nel 1948 con la medaglia d’argento olimpica a Londra 1948. Una fuoriclasse che iniziò col calcio e che ad Alessandria era affiancata da altre compagne, fra le prime pioniere del calcio in rosa. Una disciplina che dovette attendere la fine della guerra per poter tornare a essere praticata.
C’è una foto rara in cui lo Stadium della Novese, nel 1947 ospita una sfida fra le squadre femminili di Genoa e Torino. Un match voluto per raccogliere fondi per la famiglia del ciclista Pietro Fossati, morto in un bombardamento aereo. Ma questa è un’altra storia, un altro sport.
Maurizio Iappini