Ribellione
Feb 21, 2024

Il calcio italiano è rinomato per i suoi talentuosi tattici. Il ruolo dell’ allenatore è considerato tanto una disciplina accademica quanto una posizione di gestione. La filosofia di un “Mister” e la capacità di impartire la sua conoscenza ai suoi allievi sono importanti quanto la sua capacità di guidarli e controllarli. Se un allenatore possiede anche quella caratteristica astratta che chiamiamo carisma, allora potrebbe guadagnarsi lo status di culto.

Un gruppo di allenatori riuscì a realizzare un’impresa del genere. Arrigo Sacchi al Milan, Vujadin Boškov alla Sampdoria, Marcello Lippi alla Juventus e, ovviamente, Zdeněk Zeman al Foggia. In effetti, l’incrollabile impegno di quest’ultimo nell’attaccare i principi ha ispirato un culto così iconico che è stata creata una dottrina calcistica in suo onore: Zemanlandia.

Emiliano Mondonico giocatore del Torino al “Filadelfia”

All’inizio degli anni ’90, questa dottrina rivoluzionaria sfidava la saggezza convenzionale, con il suo disprezzo per i fini pragmatici e il culto dei mezzi esteticamente gradevoli. Ma all’ombra della Mole Antonelliana di Torino stava emergendo un’altra insurrezione. Una meno roboante e dogmatica di quella di Zeman, ma non per questo meno significativa. Nata al Torino e guidata da Emiliano Mondonico: anch’esso sfidò l’élite del calcio.

Il suo stile senza fronzoli ma efficiente non ha ingannato come Zemanlandia, ma il carattere di Mondonico e il suo Cuore Granata hanno scatenato il toro infuriato del Torino, dando il via all’era di maggior successo del club nella storia recente. Forse “Il Mondo” non ha reinventato la ruota, ma le sue imprese hanno assicurato che il suo status rimanesse altrettanto un culto tra i fedelissimi granata.

La carriera di un allenatore raramente segue un percorso lineare. Per Emiliano Mondonico ciò si è rivelato certamente vero, con l’apice arrivato al Torino a circa metà del suo percorso da allenatore. Questo viaggio è iniziato alla Cremonese nel 1979, dopo che l’attaccante 32enne da poco ritiratosi dal calcio giocato, si è diplomato tecnico a Coverciano.

La sua carriera da giocatore è stata modesta, avendo trascorso la maggior parte del suo tempo nei campionati minori italiani, oltre a un paio di periodi transitori in Serie A con Atalanta e Torino. Questo non era per mancanza di classe. Mondonico era un giocatore di grandissimo talento, ma dal temperamento mercuriale. Era un testardo, un personaggio ostinato a cui non importava molto la disciplina e la struttura tattica. Come ha sintetizzato Gianluca Vialli: “Oggi lo si potrebbe definire un genio imperfetto, ma allora era conosciuto come Cavallo Pazzo”. I suoi principali critici lo accusavano di noncuranza e di non riuscire a realizzare il suo vero potenziale; un esempio di sindrome del grande pesce nel piccolo stagno.

Mondonico (a destra) in azione con la maglia della Cremonese tra gli anni 1972 e 1979

Ma queste esperienze sono state istruttive per l’allenatore Mondonico. Con l’età arrivò la saggezza e il riconoscimento dei suoi difetti. Voleva assicurarsi che la generazione successiva non ripetesse i suoi errori, e le lezioni apprese da giocatore gli assicurarono che fosse adatto alla vita nei club di provincia.

Questa non era una misura della sua mancanza di ambizione come allenatore, ma della consapevolezza delle sue qualità. Qualità che gli hanno permesso di coltivare e plasmare un gruppo di giocatori, massimizzando il loro potenziale e quindi quello di tutta la squadra. Superare le aspettative divenne la ragion d’essere di Mondonico.

I primi segnali di queste qualità si sono visti nelle giovanili della Cremonese. Già un eroe locale a Cremona – avendo iniziato e terminato la sua carriera nel club – Mondonico era molto rispettato. E i suoi metodi in campo di allenamento hanno presto dimostrato che ciò era giustificato.

Dopo aver rifiutato l’importanza della disciplina, della tattica e dell’organizzazione come giocatore, le ha abbracciate e instillate come allenatore. Né ha abbandonato il suo apprezzamento per l’intrattenimento, la tecnica e l’estro. Mondonico ha trovato un equilibrio, sposando l’importanza del collettivo funzionale senza soffocare lo spirito creativo dell’individuo di talento.

Un Gianluca Vialli dal viso da bambino è stato un beneficiario di questa filosofia: “Anche se eravamo una squadra ben addestrata e organizzata, Mondonico mi ha permesso di seguire il mio istinto e tentare qualche pizzico di abilità o estro ”, ha scritto Vialli nel suo libro autobiografico.

Sulla panchina della Cremonese

Proprio come il suo allievo, il lavoro di Mondonico con la Primavera non passò inosservato e, nel giro di due anni, entrambi furono promossi in prima squadra. Con l’aiuto di Vialli, Il Mondo ha portato i Grigiorossi in Serie A per la prima volta dopo 57 anni.

Il risultato è servito da trampolino di lancio. Nel 1987 arriva la chiamata dell’Atalanta, recentemente retrocessa, e Mondonico riporta La Dea in Serie A raggiungendo le semifinali della Coppa delle Coppe. Lo status di massima serie si consolida con il nono e il settimo posto nelle due stagioni successive, quest’ultimo che vale la qualificazione alla Coppa UEFA dei bergamaschi.

Le azioni di Mondonico sono aumentate. Si era dimostrato un allenatore capace di ispirare e sostenere risultati eccessivi. Per il Torino, un club che cerca di liberarsi dalle vestigia delle glorie passate, questa è stata una proposta particolarmente accattivante.

Nell’estate del 1990 a Torino si parlava di calcio. Il nuovo Stadio Delle Alpi aveva appena ospitato due dei momenti più iconici di Italia ‘90: il gol di Claudio Caniggia che vide l’Argentina affondare il Brasile e le lacrime di disperazione di Paul Gascoigne contro la Germania.

Uno scambio di saluti tra Mondonico (a destra), alla sua seconda esperienza all’Atalanta, e il collega Claudio Ranieri, in occasione della finale di andata della Coppa Italia 1995-’96 contro la Fiorentina

Poi c’era stato il famigerato trasferimento di Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus, che aveva lasciato Firenze in armi. Ma tra i tifosi del Torino un argomento ha dominato la discussione. La loro squadra era tornata in Serie A e, sotto la nuova proprietà di Gian Mauro Borsano, aveva grandi ambizioni.

Borsano ha subito segnalato le sue intenzioni sollevando Eugenio Fascetti dall’incarico di allenatore. Nonostante il suo contributo alla promozione del Torino, Borsano ritenne Fascetti colpevole di adottare uno stile troppo conservatore e difensivo, e il capriccioso presidente reclutò rapidamente Mondonico in vista della stagione 1990-‘91.

Questa squadra del Torino si trovava ad affrontare un dilemma familiare: ritagliarsi una nuova identità degna del leggendario passato. La loro storia unica può essere in gran parte raccontata come la storia di due epoche. La prima delle quali è stata definita dalla maestosità, riverenza e indomabilità del Grande Torino. La seconda, dalla tragedia, dalla sfortuna e soprattutto dalla nostalgia. Il disastro aereo di Superga non solo ha plasmato il futuro del Torino, ma lo ha anche lasciato in uno stato di lotta perpetua.

Gianluigi Lentini nella finalissima di ritorno ad Amsterdam contro l’Ajax, tallonato da Sonny Silooy

Nessuna squadra granata da allora ha saputo veramente far fronte all’eredità lasciatagli in dote. Anche i vincitori dello scudetto del 1976 portavano con sé elementi della sfortuna che seguì il club dopo quel tragico giorno del maggio 1949, perdendo la finale di Coppa Italia tre volte di seguito tra il 1979 e il 1982 (due volte ai rigori contro la stessa squadra, la Roma).

Ma Mondonico questa storia l’ha capita. Sapeva tutto del club avendo indossato la maglia granata nel 1968, poco dopo la tragica morte di Gigi Meroni, l’emblema del Toro che, per un crudele scherzo del destino, era stato investito da un’auto guidata da un adorante tifoso granata.

Seguire il Torino rappresenta quindi un atto di fede e di lotta contro una sfortuna imponderabile. Come allenatore, l’approccio schietto, umile e operoso di Mondonico era esattamente ciò di cui i torinisti avevano bisogno. Il Mondo e il Toro erano un’accoppiata perfetta.

Valutare il successo è ovviamente relativo, ma dal punto di vista del Torino, quello di Mondonico è stato istantaneo. Al ritorno in Serie A, il Toro è arrivato quinto, davanti ai campioni in carica del Napoli e, soprattutto, ai rivali cittadini della Juventus.

Oltre ad assicurarsi la partecipazione alla Coppa UEFA della stagione successiva, Mondonico vinse anche l’argenteria nella sua stagione d’esordio. Nata nel 1927 per i club dell’Europa centrale, la Mitropa Cup aveva perso importanza quando, negli anni ’80, iniziò ad attirare i suoi concorrenti dalla seconda divisione dei paesi partecipanti. Ciononostante, il successo dei Granata rimane ancora oggi l’unico onore europeo del club e segnò l’inizio della rinascita del Torino sotto Mondonico.

Mondonico solleva la Coppa Italia 1992-’93 vinta con il Torino

Il fatto che il tattico italiano sia stato in grado di orchestrare successi così immediati si riduce a tre fattori. In primo luogo, Mondonico aveva già un forte bacino di talenti a cui fare affidamento. Insieme al portiere Luca Marchegiani, la coppia difensiva composta da Roberto Mussi e Roberto Policano era stata una carta vincente della Serie B. A loro si aggiungevano i diplomati dell’imponente programma giovanile di Sergio Vatta, probabilmente il migliore della penisola. Questa linea di talenti comprendeva i difensori Silvano Benedetti e Roberto Cravero (futuro capitano di Mondonico), i centrocampisti Gianluca Sordo e Giorgio Venturin e l’esterno dal talento precoce, Gianluigi Lentini, tutti presenti regolarmente durante il mandato di Mondonico.

In secondo luogo, finanziato dal mecenatismo di Borsano, Il Mondo riuscì a reclutare astutamente. Acciaio, grinta e personalità sono stati aggiunti nelle aree difensive con gli acquisti di Enrico “Tarzan” Annoni e Pasquale “O Animale” Bruno. I soprannomi esemplificavano la loro natura intransigente e in una famigerata occasione, si affermò che Bruno avesse abbracciato la sua reputazione all’estremo dicendo all’attaccante del Brescia Florin Răducioiu che gli avrebbe sparato mentre le squadre scendevano in campo.

Questa spigolosità è stata completata dalla finezza e dalla compostezza del fuoriclasse spagnolo, Rafael Martín Vázquez. Vázquez arriva dal Real Madrid, dove faceva parte della Quinta del Buitre, una definizione che indica i cinque giocatori che hanno aiutato il Real a dominare il calcio spagnolo negli anni ’80. La firma è stata un vero e proprio colpo di stato per il Torino e ha illustrato la forza trainante dello status e delle ricchezze della Serie A.

Infine, c’erano la personalità e il senso tattico di Mondonico. I valori che aveva imparato ad abbracciare alla Cremonese furono presto inculcati nei suoi giocatori del Torino. Il suo approccio tattico era quello che molti considererebbero tipicamente italiano; una concentrazione sull’affinamento dei fondamentali e un duro lavoro sulla forma e sull’organizzazione difensiva. Questa visione venne definita Pane e Salame: calcio impegnato, produttivo e semplice.

Come nota Paul Grech su Il Re Calcio, si trattava di un’interpretazione che lui stesso era felice di abbracciare: “Considero il pane e il salame deliziosi come poco altro. Ho un bel ricordo a riguardo: quando ero piccola i miei genitori facevano il pane e io ci mettevo sopra il salame. Il calcio è un gioco semplice; altrimenti la gente non ne parlerebbe”.

Ma Pane e Salame non equivaleva al calcio difensivo. Come ha detto Vialli, il mister del Toro è stato più che disponibile a concedere licenza creativa ai suoi artisti. Questa fu una buona notizia per Lentini e Vázquez, che prosperarono sotto la sua supervisione. Laddove altri allenatori avrebbero potuto sacrificare uno dei due, Mondonico ha implementato un sistema che soddisfacesse l’istinto offensivo di entrambi. Non che fossero giocatori di lusso, entrambi erano disposti a sacrificarsi e la personalità di Mondonico assicurava che adottassero i suoi metodi.

Mondonico, infatti, nel suo 1-3-5-1 ha trovato spazio per attributi antitetici ovunque. Alla grazia del suo libero, Cravero, si è aggiunta la robustezza dei colleghi difensivi Annoni e Bruno. L’industria dei suoi centrocampisti difensivi Sordo e Luca Fusi, è stata il contraltare perfetto per Vázquez e un anno dopo, l’elegante centrocampista belga Enzo Scifo. E quando l’attaccante dell’Ascoli Walter Casagrande si unì al club nell’estate del 1991, l’astuzia e l’innovazione di Lentini avrebbero fornito il servizio ideale per lo sgraziato ma clinico attaccante brasiliano.

Era una squadra costruita per competere ai massimi livelli e nella stagione 1991-‘92 la banda di Mondonico puntò gli occhi sulla vetta italiana e su quella europea.

L’arrivo di Scifo e Casagrande completa i pezzi mancanti del puzzle di Mondonico. Il belga è diventato il direttore d’orchestra del Toro a centrocampo, dettando il ritmo con la sua gittata di passaggi. Nel frattempo, lo stile languido ma tecnicamente abile di Casagrande ha fornito un punto focale per l’attacco, e il suo gioco di collegamento con Lentini e Vázquez è diventato un tema ricorrente. Ciò è stato dimostrato con effetti devastanti quando quest’ultimo ha fornito l’assist per la doppietta di Casagrande nella vittoria per 2-0 del Toro sulla Juventus nel secondo derby di Torino della stagione.

Tuttavia, l’aspetto più impressionante di questa squadra di Mondonico è stata la forza difensiva. Nonostante abbiano gareggiato con la formidabile difesa a quattro del Milan di Fabio Capello – Baresi, Costacurta, Maldini e Tassotti – i Granata hanno chiuso la stagione con la difesa più cattiva della Serie A. Sono stati subìti solo 20 gol in 34 partite, un record che li ha aiutati a raggiungere il terzo posto. Sebbene questo sia stato il record più alto in sette anni, sono i ricordi della straordinaria corsa del Toro alla finale di Coppa UEFA che sopravvivono ancora oggi.

Avendo fatto una progressione costante verso la fase semifinale, pochi si aspettavano che la squadra di Mondonico potesse eguagliare la potenza del Real Madrid. I migliori stopper della Serie A avrebbero dovuto contrastare la minaccia rappresentata dai signori Hugo Sánchez, Gheorghe Hagi ed Emilio Butragueño. Eppure, dopo la sconfitta per 2-1 all’andata al Santiago Bernabéu, ci sono riusciti.

Di fronte al pubblico gremito e chiassoso del Delle Alpi, il Torino dà ai Blancos una lezione calcistica di organizzazione e disciplina. La vittoria per 2-0 è il risultato di una preparazione meticolosa. Mondonico compatta il centrocampo, con Venturin, Fusi e Scifo in profondità davanti alla difesa. Tutto ciò che riusciva a penetrare questa linea – e quella delle tre di difesa – veniva travolto dal fidato libero di Mondonico, Cravero.

In avanti è Lentini il protagonista, schierato sulla destra alle spalle di Casagrande. Il ragazzo locale che aveva scalato tutti i livelli del vivaio, scivolava e tormentava mentre preparava entrambi i gol del Torino. La prestazione magistrale entrò negli annali della storia dei Granata e diede il via ad una finale contro il fiorente Ajax di Louis van Gaal.

All’epoca l’Ajax stava raccogliendo i frutti del suo leggendario sistema giovanile, che aveva prodotto giocatori del calibro di Edwin van der Sar, Wim Jonk, Aron Winter e Dennis Bergkamp. Van Gaal ha descritto la gara come una battaglia tra il calcio totale olandese e il catenaccio italiano. La finale – una vicenda a due tempi – è stata tutt’altro.

Giocando la gara d’andata in casa, il Torino ha gettato al vento la prudenza e ha abbandonato la consueta libnea difensiva. Il risultato è stata una partita end-to-end che si è conclusa con un pareggio per 2-2. Nella gara di ritorno, tuttavia, c’era solo una squadra che cercava di chiudere la porta sul retro, e quella squadra era olandese.

Sapendo di dover segnare, gli uomini di Mondonico bombardano la porta dell’Ajax. Le incessanti ondate di pressione hanno riacceso persino i ricordi del mitico “quarto d’ora” del Grande Torino, un periodo di 15 minuti di calcio ad alto ritmo in cui avrebbero folgorato gli avversari e messo il gioco fuori dalla vista. Solo che questa volta il destino ha cospirato per negare il risultato al Toro.

Tre volte il legno è stato colpito, con il tiro al volo quasi perfetto di Sordo il più straziante di tutti. La “Traversa di Sordo” è entrata nel regno del folklore, eppure è stato l’ultimo atto del gioco a rivelarsi il più simbolico di tutti.

Quando Cravero sembrava essere stato abbattuto in area di rigore durante la brace morente della partita, Mondonico ha risposto alzando la sedia sopra la testa, puntandola verso il cielo con cieca frustrazione. Il giornalista torinese Massimo Gramellini descrisse poi il gesto spontaneo come una piccola rappresentazione di “ribellione, la sfida dei Granata di fronte all’ingiustizia del destino”. Subito dopo la partita, con le lacrime agli occhi, Cravero diede voce a questo sentimento: “C’è un solo club al mondo che potrebbe perdere una finale così. Questo è il Torino. Siamo maledetti. Non so cosa dire”.

L’immagine costante di Mondonico in piedi con la sedia alzata al cielo racchiudeva le sue eccentricità, il carattere e soprattutto la passione per il gioco. In effetti, quella leggendaria stagione di Coppa UEFA rende facile dimenticare che il Mister del Torino ha poi portato la sua squadra a vincere un trofeo importante, battendo la Roma nella finale di Coppa Italia del 1993. Anche questo trionfo è stato ottenuto nel tipico stile del Toro, dopo che erano quasi riusciti a farlo buttare al vento la vittoria per 3-0 dell’andata perdendo la seconda per 5-2.

Questo trionfo fu reso ancora più impressionante dal fatto che Mondonico stava effettivamente lottando contro una marea mutevole. Dopo la finale contro l’Ajax, il presidente Borsano aveva svelato ai tifosi del club i suoi secondi fini. Avendo rafforzato la sua popolarità grazie alla proprietà di successo del club, ha utilizzato questo profilo pubblico come trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche.

Gianluca Sordo, l’uomo della traversa

Queste macchinazioni misero in moto il graduale declino del Torino. Borsano iniziò a vendere i beni più preziosi del club, incluso il ragazzo d’oro Gianluigi Lentini, finito al Milan per una cifra record mondiale. Mentre i tifosi protestavano in sede, Mondonico si mostrava sereno e realista come sempre: “Mi dispiace perderlo, ma ora la realtà è che Milan e Juventus fanno quello che vogliono, mentre le altre squadre fanno quello che possono”.

Mentre la presenza di Mondonico garantì al Torino di continuare a godere di stabilità e coerenza in campo, il caos che ne seguì significò che avrebbe lasciato il club poco dopo, nel 1994. Solo due anni dopo, il Torino fu condannato ancora una volta al purgatorio della Serie B.

Il fatto che gli ultimi due trofei del club e l’unica grande finale europea siano arrivati ​​durante il regno di Mondonico è la misura dei suoi successi nel club. Se non fosse stato per l’inesorabile ascesa del Milan all’inizio degli anni ’90, i Granata sarebbero stati dei veri pretendenti allo scudetto. Così com’era, il Torino di Mondonico sfidava ancora l’ordine costituito, fermando temporaneamente il dominio della Juve a Torino. Sebbene sia poi tornato nel 1998.

Mondonico possedeva quel carisma da guadagnarsi lo status di allenatore cult. Ma forse ancora più importante, ha dimostrato ai tifosi del Torino di condividere il loro Cuore Granata. In cambio era venerato e quando il loro ex Mister stava combattendo contro il cancro nel 2011, centinaia di tifosi del Toro si riunirono in una manifestazione di solidarietà con il loro allenatore, ognuno con una sedia sopra la propria testa. Mondonico ha risposto in modo tipicamente provocatorio, sconfiggendo il cancro e poi tornando al gioco che una volta chiamava il suo “migliore amico”. Purtroppo è mancato nel marzo 2018.

Mario Bocchio

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