Il gioco del calcio come tutte le cose si evolve, o quantomeno muta nel tempo. Con esso mutano spesso anche le interpretazioni di determinati ruoli che rendono difficilmente paragonabili giocatori di epoche diverse. Un esempio su tutti è il ruolo del mediano: già celebrato da una nota canzone sul finire degli anni Novanta, il “mediano” ha di fatto cessato di esistere, perlomeno nella connotazione classica che accosta tale termine al cosiddetto “centrocampista di rottura”.
Oggi le caratteristiche richieste per fare il mediano sono la corsa, la grinta, la capacità di recuperare palloni, i tempi di inserimento, il tiro da fuori e possibilmente un buon contributo alla costruzione della manovra. Non a caso si parla sempre meno di mediano e sempre più di “interno”, ruolo che fino agli anni Settanta era sinonimo di “mezzala”, vale a dire un giocatore di caratteristiche più offensive che difensive. Le cose hanno iniziato a cambiare quando l’Olanda ha introdotto il calcio totale e, contemporaneamente, sulla scena internazionale sono emersi giocatori come Tardelli e Breitner, vale a dire i primi a potersi definire dei centrocampisti “completi”.
Prima di allora, il mediano era più che altro un difensore aggiunto, spesso deputato a francobollare il numero 10 avversario in modo da frenarne la creatività e da limitarne il raggio d’azione. Gol, passaggi smarcanti, assist, inserimenti: tutto passava in secondo piano davanti al compito primario del mediano, cioè quello di limitare l’avversario più pericoloso. Viene da sé che nella visione attuale del calcio, orientata al collettivo prima che al singolo, questo sarebbe pressoché impensabile: non solo non si troverebbero allenatori disposti a proporre una soluzione simile, ma forse nemmeno giocatori capaci di applicarla.
Nonostante – o forse complice – la vocazione al sacrificio richiesta al mediano “classico” c’è stato chi, con prestazioni eroiche, è riuscito a ritagliarsi uno spazio nella storia del calcio: Norbert Stiles, vero e proprio mastino, vinse un titolo mondiale con l’Inghilterra nel 1966; Trapattoni, al di là della grandissima carriera vissuta da allenatore, è ricordato per aver annullato Pelé in un’amichevole tra Italia e Brasile. E poi c’è Carlo Tagnin, che non solo ha dalla sua un percorso a dir poco singolare ma anche un aneddoto che ha dell’incredibile.
In una lunga intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel 1993, Tagnin – scomparso nel 2000 a causa di un osteosarcoma – narrò di sé stesso e di come sfondò nel calcio partendo da una famiglia di umili origini (padre calzolaio, mamma casalinga) che pur vivendo la guerra in condizioni migliori rispetto ad altri – la sua Valle San Bartolomeo era un paese di sfollati – ne conobbe i disagi e le difficoltà.
Tra le altre cose, Tagnin giocò nelle giovanili del Torino vivendo da tesserato granata la tragedia di Superga, conobbe un giovanissimo Rivera suo compagno nell’Alessandria e, quando vestiva la maglia del Bari nel 1961, fu coinvolto e ritenuto unico responsabile di un caso di combine che lo costrinse, a 29 anni, a scontare due anni e mezzo di squalifica, poi ridotti a uno. Ed è a questo punto della sua storia come tante che si verificò l’episodio che sto per raccontare.
Dopo la squalifica, Tagnin si ritrovò senza squadra. Nel 1962 era ormai trentenne e a quei tempi ciò significava essere sul viale del tramonto; non la pensava evidentemente così il signor Armando Bogliardi, imprenditore con l’hobby del calcio. Il Rapallo Ruentes di cui era presidente aveva appena raggiunto la promozione dalla serie D alla C e a stagione conclusa fu programmata una tournee in terra spagnola. Una delle tre amichevoli previste per la circostanza vedeva come avversario nientemeno che il blasonatissimo Real Madrid sul terreno del Santiago Bernabeu. Al rosso mediano, che vantava trascorsi anche in Monza e Lazio, venne proposto dal massimo dirigente della società della provincia genovese di partecipare nelle vesti di ospite; questi accettò e – forse inaspettatamente – si ritrovò a fronteggiare i blancos, freschi campioni di Spagna e vicecampioni d’Europa.
Benché privi delle stelle di primissima grandezza, i padroni di casa passeggiarono sulla malcapitata compagine ligure, infliggendole il pesante passivo di 8-0. Questo il tabellino della gara:
Come si può notare, l’unico campionissimo in campo era Gento II, che giocò appena una mezz’ora; per il resto i soli Miera, Isidro e Tejada potevano vantarsi di essere stati titolari nella stagione appena trascorsa. Dei vari Puskas, Di Stefano e Santamaria neanche l’ombra.
L’esperienza in Spagna si rivelò un trampolino di lancio inatteso per Tagnin: dopo esser rientrato in Italia ricevette la chiamata del dirigente dell’Inter Italo Allodi, che gli comunicò di come il mister Helenio Herrera lo volesse alle proprie dipendenze a partire dalla stagione successiva; sembrava uno scherzo, ma era realtà: l’esperto e dinamico centrocampista di contenimento avrebbe vestito il nerazzurro.
L’Inter edizione 1962-’63 sarebbe stata la prima scudettata di Angelo Moratti dopo otto anni di presidenza; il contributo di Tagnin fu in effetti nullo ai fini della conquista del titolo, ma l’unica presenza raccolta in quell’annata gli avrebbe comunque permesso di fregiarsi campione d’Italia.
Si potrebbe pensare che dopo due anni di sostanziale inattività un giocatore di trentuno anni possa avere ben poco ancora da dare. Tagnin, tuttavia, si rimboccò le maniche e nella stagione successiva, quella del 1963/64, sarebbe diventato titolare rubando il posto a Zaglio. L’Inter marciava alla grande e se in campionato pativa la concorrenza del Bologna di Bernardini, in Coppa dei Campioni raggiunse l’accesso alla finale. 27 maggio 1964, lo stadio era il Prater di Vienna. L’avversario, per uno strano scherzo del destino di Tagnin, era proprio il Real Madrid.
Lo scenario era chiaramente diverso da quello di una semplice amichevole contro il Rapallo, quindi il tecnico degli spagnoli Muñoz mise in campo la miglior formazione possibile: stavolta Santamaria, Puskas e Di Stefano c’erano, così come Vicente, Isidro e Gento II con cui quindi Tagnin ebbe occasione di rivedersi.
Le consegne del Mago Herrera erano chiare: seguire Di Stefano in qualsiasi zona del campo. Tagnin, la cui filosofia di gioco era di fare solo ciò che sapeva, prese le indicazioni alla lettera e fu l’ombra dell’asso sudamericano perfino quando andava a prendere la palla nella propria metà campo, al punto da portare questi a chiedergli: “E se io esco, tu che fai?”. La risposta di Tagnin non si fece attendere: “Se usciamo tutti e due ci rimette il Real, mica l’Inter”. «Facevo il pressing prima ancora che fosse stato inventato», avrebbe poi detto Tagnin nella succitata intervista al Corriere della Sera. Per la cronaca, l’Inter vinse quella finale 3-1 e il rosso mediano piemontese compì così la sua personale vendetta per quell’umiliante sconfitta patita circa due anni prima.
Quell’anno l’Inter avrebbe perso lo scudetto in favore del Bologna nel drammatico spareggio dell’Olimpico di Roma, ma Tagnin avrebbe avuto occasione di rifarsi vincendo anche l’Intercontinentale e lo scudetto del 1964-’65; trofei, questi, a cui si aggiunge la Coppa Italia vinta con la maglia laziale nel 1958 per un palmares da fare invidia a tanti campionissimi.
Tagnin avrebbe chiuso la carriera nel 1966 con la maglia dell’Alessandria e successivamente avrebbe scelto di fare l’allenatore, prevalentemente nei settori giovanili dell’Inter e dello stesso club alessandrino.
Dopo il termine della sua carriera in panchina si ritirò a vita privata, sino alla morte giunta all’ancor giovane età di 67 anni. Oggi lui non può purtroppo raccontarla, ma la storia del disoccupato che prese una scoppola dal Real Madrid e si rifece con gli interessi due anni dopo conserva comunque un fascino inalterato: quello dell’imprevedibilità della vita.
Nicola Adamu