Qual è il valore del proprio nome? Si possono sacrificare una promettente carriera e un futuro luminoso per volerlo mantenere, quel nome? Si può decidere di perdere tutto per non rinunciare alle proprie origini, alla propria terra, alla propria dignità?
Questa è la storia di un uomo, di un giocatore di pallone, che non barattò la gloria con le sue convinzioni. Questa è la storia di Bruno Scher, al quale il regime voleva aggiungere una “i”.
Bruno nasce il 10 dicembre del 1907 a Koper, in italiano Capodistria. Fin da giovane sviluppa due passioni: il calcio e il comunismo. Marxista convinto, sembra aver applicato anche al campo da gioco la filosofia che lo guida nella vita: generoso, altruista, sempre in grado di pensare ai compagni e di sacrificarsi per loro. Il suo ruolo, il centromediano, è la chiave del sistema di gioco allora in voga, il Metodo, e implica che i suoi interpreti siano tanto forti fisicamente quanto intelligenti dal punto di vista tattico e abili da quello tecnico. Ecco come l’Enciclopedia del Calcio descrive Scher: “Centromediano ed interno dotato di grande forza fisica, eccezionale disposizione alla fatica, forte nei colpi di testa e in possesso di una ragguardevole castagna”. Così lo tratteggia il portale WLecce: “Centromediano tostissimo, Bruno Scher. Fortissimo e insieme ricco di indubbie capacità tecniche: un istintivo senso tattico, anticipo, tempismo. Abile nel gioco di testa, tirava delle legnate formidabili con entrambi i piedi. Dotato di polmoni d’acciaio, scorrazzava infaticabile per il campo durante tutti i novanta minuti”. Insomma, un giocatore di alto livello.
Bruno emerge nella Triestina, ma è al Sud che si consacra: due ottime stagioni in B a Lecce gli permettono di sbarcare a 25 anni in serie A, nelle fila del club rivale storico dei giallorossi, il Bari. Parte forte, Bruno. 9 presenze e 2 reti in serie A sono già sufficienti per metterlo al centro dell’attenzione. Si parla di un trasferimento importante al Nord a fine stagione, addirittura nell’Ambrosiana Inter, e sembra che il commissario tecnico dell’Italia, Vittorio Pozzo, sia intenzionato a chiamarlo. Ma qualcosa si rompe. A Bari non gioca più, infatti terminerà la stagione con quelle 9 solitarie presenze. Non si tratta di un problema tecnico, neppure di un problema comportamentale. Il problema è quel cognome così poco italiano, così istriano. Che, unito alla dichiarata fede comunista dell’uomo, lo rendono un indesiderabile negli anni ruggenti del fascismo. Gli hanno proposto un escamotage, aggiungere una -i al cognome: da Scher a Scheri. Ma Bruno ha detto no, e per questo è finito ai margini.
Alla fine della stagione, a quasi 26 anni, la carriera di Bruno Scher pare finita. L’istriano trova spazio solo in terza serie, in una piccola squadra come la Lucchese: cosa che la dice lunga su quanto non sia stato digerito il suo rifiuto dalle alte sfere. Quello che però il regime non ha messo in conto è che quella Lucchese scriverà una pagina clamorosa del calcio italiano. Sotto la guida di Ernő Erbstein, l’uomo che creerà il Grande Torino nel dopoguerra, i rossoneri in tre anni passano dalla serie C alla A; inoltre nella Lucchese, beffa ulteriore al regime, giocano in questi anni alcuni simboli dell’antifascismo sportivo, come il portiere Aldo “Gatto magico” Olivieri (futuro campione del mondo nel 1938, rilanciatosi a Lucca dopo aver rischiato di smettere a causa di una frattura al cranio), Bruno Neri e l’anarchico Libero Marchini. Oltre, ovviamente, a Bruno Scher. Due anni in massima serie riaccendono i riflettori sull’istriano, che viene nuovamente pressato per rinunciare al proprio nome in favore del quieto vivere. Un dirigente della Lucchese, fascista, gli “suggerisce” ancora una volta l’italianizzazione in Scheri, e ancora una volta lui rifiuta. E scende di nuovo in serie C, per giocare con l’Ampelea di Izola (Isola d’Istria), il Pieris e il Siderno.
La fine della guerra lo trova a Trieste, in gravi difficoltà economiche. Sarà l’amico Olivieri, divenuto allenatore della Triestina nel 1957, a offrirgli un incarico come suo vice. Bruno Scher morirà alla fine degli anni ’70, dimenticato da tutti. Lui pagò sulla sua pelle la scelta di rimanere se stesso, destino simile a quello di tanti altri corregionali.