Palla stupenda di Adelio Moro sul secondo palo: Zoff esce in apparente scioltezza, ma calcola male. Lui arriva da chissà dove e appoggia al centro della porta. Come fosse facile.
Fa il giro. Corre, ride, agita le mani. E manda baci. Perché adesso non ce la fa più. E non perché è un gol alla Juve. E potrebbe essere la più dolce delle vendette. E non perché sa perfettamente che quello è il suo ultimo gol dell’anno. Anzi di tutti gli anni Settanta . Perchè si gioca il 30 dicembre 1979. E non perché prima di entrare in campo ha ricevuto quella visita inaspettata. Una di quelle che non dimentichi più . Soprattutto se ti sei presentato da avversario.
E nemmeno perché quella per l’Ascoli è una vittoria storica, da incastonare in un campionato che si concluderà con un meraviglioso quarto posto.
Ma semplicemente perché quel gol per Pietro Anastasi è il numero 100 (cento).
“Prima della partita mister Fabbri è venuto da me e mi ha detto: ‘Devi giocare un po’ indietro. Gioca alla Di Stefano. Imposta in mezzo al campo , poi scatta in contropiede.’ Io l’ho guardato e gli ho detto: ma io non sono Di Stefano”.
Poi qualcosa ha interrotto gli esercizi di riscaldamento: “Sono venuti a cercarmi nello spogliatoio per dirmi che un signore voleva salutarmi. Io ho vissuto tanto tempo a Torino e conosco tanta gente. Sono uscito subito, certo di trovare qualcuno di mia conoscenza. Tutto potevo immaginare tornando a Torino, meno che venisse a salutarmi. Mi ha fatto tornare indietro di dieci anni . Era l’avvocato Agnelli: mi ha stretto la mano, da buon amico . E’ stato molto gentile”.
Petruzzu tiene palla , fa salire la squadra. Quindi smista. C’è Bellotto che sfreccia a destra e c’è ancora lui in mezzo. Infatti Cuccureddu lo rintraccia proprio lì. Poi se lo perde, annaspa. Lo ritrova , ci arriva. E fa autogol : Juventus-Ascoli 1-2.
“Sapevo che ad Ascoli sarei stato bene. Ho ritrovato la tranquillità. E ho ripreso a segnare. E poi in fondo, io ho cominciato in provincia”. Per la precisione nell’oratorio San Filippo Neri a Catania. Suo padre fa il meccanico: “Da piccolo il mio idolo era John Charles. E sono riuscito anche a farmi una foto con lui. Eravamo al Cibali, avevo tredici anni e facevo il raccattapalle. Poi purtroppo non arrivai a prendere il diploma. Quello avrebbero dovuto darlo a mio padre per tutte le scoppole che mi ha rifilato”.
La Massiminiana lo compra per duecentoventimila lire e gli promette cinquantamila lire d’ingaggio : “In realtà me ne diedero meno. Poi, passato un po’ di tempo, mi vennero offerti i pasti di un ristorantino vicino al campo di gioco. Lo stipendio lo passavo tutto in famiglia. Non avevo neanche un soldo in tasca, ma ero felice perché mangiavo al ristorante”.
Segna gol a caterve e la Massiminiana arriva in serie C. Petruzzu però in C non gioca perché se l’è già portato via il Varese. Per l’occasione, Petruzzu ha comprato la valigia : “Avrei preferito andare al Catania o al Palermo. Per restare vicino ai miei. Ma in quel momento mi ero reso conto che se volevo aver successo, dovevo ubbidire”. Prende il Varese in B e lo lascia a metà classifica in serie A: “L’allenatore era Arcari, come un padre. Mi raccomandava: vai in campo e fai quello che sei buono a fare”.
Gioca un’amichevole con l’Inter e sembra quella la strada. Alla fine del primo tempo gli danno la notizia: vai alla Juve. “Mi sono sentito come un animale che si può vendere comprare a piacimento. Come se non contassi nulla. Ma andavo alla Juventus, la squadra che sognavo da bambino”.
Qualcuno lo chiama centravanti anomalo. E ha ragione, perché Petruzzu è un centravanti moderno. L’hanno preso spesso in giro per gli stop approssimativi e lui non ha mai risposto. A parole. Una sera, Petruzzu fa corpo con la palla. La possiede, la protegge. Poi si avvita e diventa campione d’Europa : “Forse il portiere avversario si aspettava un passaggio. E invece mi è saltata giusta e ho colpito forte di collo. Ho avuto subito la percezione che sarebbe stato gol. E’ stato il più bello della mia vita. Un paio di giorni prima avevo parlato al telefono con mia madre”.
Si presenta alla Juve, ma il look non è politicamente corretto: Petruzzu non si fa schiacciare . E va a cercare una cravatta. La prima è a Bergamo. Viene incontro il libero e lui gli fa il sombrero col destro e azzarda il sinistro : sotto l’incrocio. Sullo striscione lassù c’è scritto “Anastasi Pelè bianco”. Col Cagliari segna il gol che vale lo scudetto ’72. Poi parla a Novantesimo minuto : “Avevamo fatto un patto nello spogliatoio. Abbiamo vinto per il mister”. Vycpalek lo sta guardando alla tv : ha appena perso il figlio.
La curva Filadelfia brulica di meridionali ed elegge Petruzzu a simbolo del riscatto. I gol e i suoi sbalzi d’umore sono la rivendicazione delle radici : “Non so quanti Juventus club ho inaugurato. Mi fermano, mi raccontano le loro storie . Sono storie di sacrifici. Molti sono della mia terra. E io faccio gol anche per loro”. La Juve passa alle tre punte e lui cambia : diventa perimetrale. Tiene i collegamenti, rientra in difesa.
Ma lo sguardo è sempre quello, sincero, un po’ beffardo: “Se una volta mi avessero imposto di giocare in un modo diverso dal mio stile, forse mi sarei rifiutato. Questione di temperamento. Ma mi consideravo l’ombelico della squadra. Con Vycpalek mi sono adattato a tutto perché mi rendo utile agli altri e a me stesso. Giochiamo per vincere contro chiunque: questa è la nostra forza”.
Solo quando l’esigenza collettiva è soddisfatta, Petruzzu torna a graffiare. Un altro scudetto.
Finchè non arriva Carlo Parola.
Lui e Petruzzu cordialmente si detestano . E’ un Juve-Lazio decisivo per lo scudetto ’75: Petruzzu deve fare panchina. E non ci sta. Vuole mollare tutto. Poi entra e fa tre gol in cinque minuti. Ma l’anno dopo, la sorda lotta intestina degenera nell’ oltraggio: a Cesena, Petruzzu non in panchina, ma in tribuna. E convoca subito la conferenza stampa: “Sono stato zitto due anni. Adesso parlo . Arriva un momento in cui non puoi lasciare tutto così e devi reagire. E non è vero che non dormo la notte. E non è vero che ho il mal di fegato. Scrivono che non ho reso: può darsi, ma non è solo colpa mia”.
Evoca congiure di palazzo. Da capitano della squadra, Petruzzu si è trasformato nel “centravanti del dissenso”. Ufficialmente ha otto giorni di permesso, in realtà è fuori rosa.
“Per tenermi su riguardo gli album con le foto dei gol, i dribbling. Ma i miei nervi sono fragili”. Quando rientra in spogliatoio, i compagni lo guardano come fosse un oggetto radioattivo. Niente, deve allenarsi da solo e la domenica ancora tribuna. Come se la Juve stesse scialacquando il vantaggio in classifica per colpa sua. E questo è il momento in cui i suoi tifosi non lo mollano. Mentre la Juve perde lo scudetto, dalla curva Filadelfia si alza un solo grido: “Pietro, Pietro, Pietro”.
Destinazione Inter in cambio di Boninsegna, ma Petruzzu non ingrana. Corre: una volta è in ritardo, un’altra è in anticipo . “Voglio dimostrare a quelli di Torino che non sono finito . E sbaglio perché cerco di strafare, di segnare a tutti i costi . Al primo errore, giù fischi: io mi tormento e sbaglio ancora di più. Questo confronto con Boninsegna mi sta perseguitando”.
La sentenza dell’avvocato Agnelli dopo un Juve-Inter 2-0 con doppietta di Bonimba: “La differenza tra Juve e Inter è la differenza che esiste tra Boninsegna e Anastasi”.
Spedito nelle Marche nell’operazione-Pasinato: Ascoli diventa la camera di compensazione di tutti i rimpianti di Petruzzu. Fino a quel giorno.
L’Ascoli per la prima volta nella sua storia ha battuto la Juve al Comunale di Torino: 3-2. La squadra di Trapattoni viene fischiata. “Buffoni, buffoni”. Mentre Petruzzu festeggia: “Oggi non abbiamo rubato nulla. Ne abbiamo fatti tre, ma potevano essere di più. A me va bene essere Anastasi, non Di Stefano. E mi sono commosso sentendo gli applausi. Era tutto lo stadio. Significa che non mi hanno dimenticato. Perché questo è il mio pubblico. Già proprio il mio pubblico. Anzi, il mio centesimo gol lo dedico proprio ai tifosi della Juve”.
Sorride e saluta . Poi si avvia verso l’uscita dello stadio e si ritrova circondato dai tifosi juventini. Sono tantissimi.
Lo abbracciano e gridano “Pietro, Pietro , Pietro, Pietro”.
Ernesto Consolo