«Facevo il raccattapalle e, nei giorni di allenamento, spiavo dalla fessura del cancello i calciatori della prima squadra del Varese, poi mi sono trovato a giocare e allenarmi con loro…»: tutto iniziò così per Bruno Limido, dal Bosto al Varese e poi anche alla Juve («Lo stile, con Boniperti e Agnelli, significava lavare i panni sporchi in spogliatoio e non uscire mai dal seminato, sia in campo che fuori»). Oggi Bruno, che ha compiuto 61 anni il 7 marzo, fa la “chioccia” all’Accademia Varese voluta da Sogliano («Ragazzi, bisogna essere pronti a fare sacrifici e a tirar fuori la grinta!»), quando non si dedica a fare il nonno o a fare vendemmia in Val d’Orcia.
Bruno Limido inizia a giocare da ragazzino del Bosto, storica fucina di giovani talenti. Scovato da alcuni osservatori del Varese, che intuiscono le sue doti tecniche e caratteriali, inizia la scalata negli allievi biancorossi, poi è una cavalcata: juniores, Primavera e prima squadra, dove esordisce a 17 anni serie B con Eugenio Fascetti. Dopo due campionati in biancorosso, passa in prestino ad Avellino, dove a vent’anni fa il suo esordio in serie A. Nel 1981 ritorna in prestito al Varese, furia tra le “furie biancorosse” di Fascetti, prima di una nuova avventura nel capoluogo irpino. Con i “lupi” disputa due stagioni ad altissimo livello, emergendo tra i migliori talenti della squadra dell’allora presidente Antonio Sibilia.
Nel 1984 passa alla Juventus dove ritrova Stefano Tacconi, Beniamino Vignola e Luciano Favero, suoi ex compagni avellinesi. Con i bianconeri del Trap, in un solo anno, vince Supercoppa e Coppa dei Campioni. Nel 1986 raggiunge Bergamo, dove gioca con l’Atalanta, per poi passare a Bologna, Lecce e Cesena. Ritorna nella Città Giardino nel 1989, giocando nella Solbiatese e nel nuovo Varese dove conclude la sua carriera da calciatore nel 1992.
Bruno Limido, dove iniziò questo lungo viaggio?
«Quando dal Bosto sono passato in biancorosso, ho toccato il cielo con in dito. Ho fatto tutta la trafila del settore giovanile con impegno e determinazione: ero il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad andarmene. Feci il mio esordio con mister Fascetti in prima squadra, e mi tremano ancora le gambe a pensarci. Ero un ragazzino, in mezzo a tanti calciatori di esperienza. Facevo il raccattapalle, e nei giorni di allenamento della prima squadra spiavo dalla fessura del cancello De Lorentiis, Giovannelli, Di Giovanni, Manueli, Ramella, Doto… poi mi sono trovato a giocare e allenarmi con loro. Ventenne sono andato a giocare ad Avellino, appena colpita dal disastroso terremoto dell’80 con migliaia di morti: nella mia esperienza in Irpinia mi sono trovato subito bene. Attorno alla squadra c’era molto calore e lo stadio era sempre pieno. Poi mi ha chiamato la Juventus, ed è stato una anno di stile bianconero. Ho avuto modo di conoscere Boniperti e l’avvocato Agnelli. Avevo 23 anni, ed essere assieme a Scirea, Cabrini, Boniek, Platini, Tardelli era tanta roba. Calcisticamente parlando, nel mio ruolo avevo la concorrenza di un certo Cabrini e di un certo Boniek… ».
Hai toccato con mano lo stile Juventus?
«Il comportamento fuori e dentro il campo faceva parte dell’essenza della società. L’impegno doveva sempre essere massimo, ma soprattutto non c’era spazio per i pettegolezzi. Vigeva la regola che i panni sporchi si lavano negli spogliatoi, e basta. Chi usciva dal seminato, pagava pegno».
Ritorniamo a Varese: qualche ricordo?
«Tanti, ma vorrei ricordare due persone che sono recentemente scomparse e che sono state dei miei punti di riferimento. Il massaggiatore Veglio Astori e Mario Barluzzi. Veglio era il mio motivatore, il fratello maggiore che mi dava consigli. A quei tempi il massaggiatore e il magazziniere erano per i giovani punti di riferimento. Mario era la positività in persona. Ricordo le nostre “vasche” in corso Matteotti .
Era l’eleganza in persona, sia come presenza che come comportamento. Un vero signore. Ricordo una scherzo negli spogliatoi da parte dei “veci”: era assolutamente vietato usare il lettino dei massaggi, eppure avevo una vescica da curare, e doveva vederla il Veglio. Mentre lo aspettavo, i veci mi misero dell’alcol sulle gambe dando fuoco ai peli: era il celeberrimo scherzo del “pollo spennato”. Potete immaginare l’odore di bruciato quando arrivò il Veglio… e anche le gambe con i peli bruciacchiati».
Fonte Varese Noi