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Le storie più belle a volte nascono quasi per caso. Il 18 novembre 1973 Francesco Graziani è ancora un giovane centravanti di provincia che si è fatto conoscere nella stagione precedente con la maglia dell’Arezzo in cadetteria. Quella domenica – che vede la sua nuova squadra, il blasonato Torino, scendere in campo nella Genova blucerchiata – coincide con l’esordio in Serie A del futuro campione del mondo. Ma non solo, perché quell’anonimo pareggio di inizio campionato è l’inizio di un racconto lungo 8 anni, scritto insieme a Pulici. Per mezzo di 200 reti nella massima serie. Non un percorso solitario quindi: in campo per sostituire Bui – altra punta della rosa sabauda – prende infatti forma la prolifica coppia con Paolino, miglior marcatore di tutta la storia granata.
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Con il passare dei minuti, quindi delle gare, le due bocche di fuoco capiscono la loro imprescindibile complementarietà. Pulici – sgrezzato tecnicamente e tatticamente qualche anno prima dall’emblema del tremendismo granata Gustavo Giagnoni, il “tecnico con il colbacco” – è potenza, aggressività e qualità acrobatica. Graziani generosità, abnegazione (in Coppa dei Campioni veste anche i guantoni da portiere nel finale della gara contro il Borussia Mönchengladbach) e doti aeree.
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Proprio quest’ultimo – come ricorda Marco Battistini – apre le danze in quella che, su tutte le altre, è la loro partita manifesto: il 5-1 dell’aprile ‘75 rifilato in trasferta alla malcapitata Lazio. Due volte – sempre di testa – nella prima frazione mentre l’ultimo quarto d’ora vede salire in cattedra Pupi, finalizzatore di tre contropiedi ospiti.
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103 ne butterà dentro Puliciclone, 97 il Ciccio nazionale. Intesa che per diversi motivi – in particolare la spietata concorrenza – non si ripropone con la maglia azzurra. Se Graziani gioca, segna (al Camerun) e vince il Mondiale 1982, Pulici al contrario partecipa a due spedizioni iridate senza mai scendere in campo. Sono loro però a far crescere il furore dell’ultimo toro rampante, terminali offensivi di un gruppo affiatato (dal giaguaro volante Castellini all’estro di capitan Sala) guidato da Gigi Radice, profeta della pressione incalzante.
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Il sergente di ferro – fino ad allora più abituato alla lotta salvezza che a questioni di vertice – occupa la panchina granata nell’estate successiva alla goleada romana. Dal Bologna arrivano l’eclettico difensore Caporale e l’intelligente Pecci, ma salutano la bandiera Ferrini, trincea Cereser e quel toscanaccio di Aldo Agroppi: una squadra che per gli addetti ai lavori avrebbe potuto ambire – al massimo – alla seconda posizione.
Dopo ventuno giornate i cugini sono avanti di cinque lunghezze, ma per chi considera “ogni pallone una specie di guerra” – Pulici dixit – nessun traguardo può essere proibitivo. L’idolo della Maratona e il generoso compagno di reparto (mettono insieme 36 reti su 49 realizzate dai futuri campioni d’Italia) trascinano i propri compagni in un’impresa resa ancora più memorabile dal sorpasso sull’odiata Juventus: nel giro di tre domeniche Sala e soci mettono la testa in avanti, senza più lasciare la vetta della classifica.
Il 16 maggio – a ventisette anni dalla tragedia di Superga – mentre la Vecchia Signora soccombe a Perugia, il punto casalingo contro il Cesena ricuce sulla maglia granata il triangolo tricolore. Il primo dopo il ciclo degli Invincibili, l’ultimo della mitica storia del Toro.