Antonio Juliano non è solo una bandiera del Napoli. È stato l’alfiere di una squadra che si è battuta con le big del Nord per lo scudetto, il simbolo – e poi il riscatto – di tanti calciatori del Sud trascurati dalla Nazionale italiana, il riferimento per i giovani azzurri e per i compagni nelle battaglie sindacali con la società, un dirigente che, con la capa tosta, ha portato Maradona a Napoli, un evento che ha segnato per sempre la città, non solo quella legata al calcio. Tutto questo, e molto di più, è stato Totonno Juliano. La sua figura emerge nella storia del club azzurro non solo per l’indiscutibile talento calcistico. È utile sottolineare, ovviamente, gli aspetti tecnici del capitano ma anche il background di un calciatore e di un uomo che è anche figlio della sua terra, diretta derivazione delle sue esperienze familiari e adolescenziali. Juliano, seppur serioso e severo, è stato amato per il grandissimo calciatore che ha dimostrato di essere ma anche per quello che ha rappresentato: un vessillo della Napoli vera, lontana dall’oleografia da cartolina.
Nato in piena Seconda Guerra Mondiale, nel 1943, nel popolare quartiere di San Giovanni a Teduccio, dove la famiglia – origini irpine – si ferma fino ai suoi 16 anni. Si trasferiscono per aprire un negozio di alimentari a Poggioreale. Se ne vanno dopo un mare di quattrini spesi per riparare l’edicola votiva della Madonna dell’Arco: «Nel rione tutti sapevano che spesso la sfasciavo io. Io col mio pallone. Una volta rompevo le luci, una volta il vetro. Riparavano i miei. Anche quando non avrebbero dovuto. Era sempre colpa mia». San Giovanni, una scuola. È lì Juliano capisce cosa sono i sacrifici. Tre figli, lui e due sorelle. «Senza benessere, eppure mai che ci sia mancato qualcosa. Poi ho capito. Non ricordo mai d’aver visto mio padre e mia madre andare al cinema. La casa, il lavoro, i figli. A me pagavano pure la scuola privata…». Tira i primi calci nel Cirio per poi passare alla Fiamma Sangiovannese.
Qui viene notato da un dirigente del Napoli, Mario Franco, che lo porta nelle giovanili Azzurre. La sua prima apparizione in prima squadra coincide con il primo trofeo conquistato dal Napoli durante la sua lunga storia: la Coppa Italia del 1962. Juliano disputa una gara della fase preliminare contro il Mantova. L’esordio in serie A avviene in una domenica non certo memorabile per i colori Azzurri: Napoli–Inter 1-5, anno 1963. La “grande” Inter del Mago Herrera si avvia a conquistare il suo primo scudetto e quel giorno un “povero” Napoli, già in odore di retrocessione, non riesce ad opporre alcuna resistenza. Juliano però, pur nel marasma generale, non demerita affatto rendendosi persino pericoloso in zona gol colpendo un palo.
Nel prosieguo della stagione è schierato soltanto in un’altra occasione (Roma–Napoli 5-1 di Coppa Italia) altrettanto negativa per i colori Azzurri, e così il “nostro” vive appena l’ebbrezza della massima divisione ritrovandosi mestamente insieme a tutto il Napoli ai nastri di partenza per il torneo di B 1963-‘64. Juliano però viene considerato ancora troppo giovane e così, in un campionato che vede gli Azzurri classificarsi solo ottavi, le sue presenze saranno soltanto dodici corredate da una rete realizzata contro la Pro Patria di Busto Arsizio (3–1 per il Napoli).
Finalmente nella stagione 1964-‘65, con Pesaola allenatore, Juliano entra stabilmente a far parte dell’undici titolare approfittando anche di due contemporanee squalifiche comminate a Spanio e ad Emoli. Questa volta il Napoli tiene fede al suo blasone e rispetta i pronostici della vigilia concludendo il campionato al secondo posto con annessa promozione in serie A. Juliano con 2 gol in 27 gare disputate contribuisce fattivamente al trionfale ritorno fra le “elette”. Il presidente Roberto Fiore vuole costruire un Napoli da sogno, finalmente degno dell’enorme passione dei discendenti di Partenope. Prima acquista Omar Sivori in rotta di collisione con Heriberto Herrera grazie al decisivo interno del “Comandante”, al secolo Achille Lauro, che tratta direttamente il passaggio dell’asso argentino con l’Avvocato Agnelli commissionando alla FIAT i motori per 2 sue navi; successivamente strappa per 280 milioni di lire Josè Altafini dalla grinfie di Gipo Viani, Dg del Milan. Juliano non si lascia intimorire dal confronto con simili fuoriclasse, né lo scompone il passaggio alla massima serie: riesce, piuttosto, a mettersi umilmente al servizio di campioni del genere, cominciando a farsi notare anche a livello nazionale, tanto che il Ct Edmondo Fabbri lo fa esordire Nazionale in occasione di Italia–Austria 1-0 nel 1966 per poi convocarlo fra i ventidue che parteciperanno all’infausto Mondiale inglese del 1966, che vede l’Italia scrivere una delle pagine più nera della sua lunga storia con la sconfitta per 1-0 ad opera della Corea del Nord. Totonno, comunque, subisce indirettamente quest’onta non venendo mai schierato nell’undici titolare. Frattanto il Napoli calcio vive tre stagioni respirando sempre l’aria dell’alta classifica. Nel ’66 si classifica 3°; nel ’67 4°; nel ’68 2°, benché ad 11 punti dal Milan tricolore di Gianni Rivera.
Ormai Totonno è diventato il simbolo degli Azzurri, nonostante la presenza di mostri sacri come Altafini e Sivori, tanto da stuzzicare la fantasia di Nereo Rocco, tecnico del Milan, che vorrebbe affiancarlo a Gianni Rivera per costituire una coppia di mezze ali da sogno. Franco Carraro, allora a capo della società rossonera, arriva ad offrire la bellezza di 800 milioni per acquistarlo (siano nel 1968). La risposta però del presidente Fiore è negativa, pur con gli ovvi tentennamenti di fronte ad una simile offerta. Sempre in quel fatidico 1968 l’Italia ha l’onore di organizzare la fase finale della terza edizione dei Campionati Europei e Juliano oltre ad essere schierato nei due infuocati quarti di finale contro la Bulgaria, fa parte dell’undici titolare sia nella semifinale di Napoli contro l’URSS (vinta per sorteggio dopo lo 0-0 sul campo), sia nella prima finale di Roma contro la Jugoslavia avventurosamente pareggiata nel finale con una staffilata di Domenghini. Nella ripetizione vinta per 2-0 che laureò gli Azzurri Campioni d’Europa e successivamente Cavalieri della Repubblica, Totonno viene sostituito da Sandro Mazzola. Nel 1970 è convocato per il suo secondo Mondiale (Messico 1970), rimanendo sempre fra le riserve sino al ’75 minuto della finalissima contro il Brasile, anticipando di qualche minuto l’ingresso di Gianni Rivera destinato al suscitare violentissime polemiche. Juliano entra quando il punteggio è già decisamente a favore di Pelè & C. (3-1), distacco destinato purtroppo ad aumentare sino al 4-1 finale grazie al gol di Carlos Alberto. Dopo Mexico ’70 il Napoli vive stagioni di tranquilla mediocrità ad eccezione del 1970-‘71 quando gli Azzurri duellano a lungo per il titolo con il Milan e la scudettata Inter. La rinascita per Juliano e del Napoli arriva con l’allenatore più avveniristico del momento: Luis Vinicio.
Giocando all’olandese, Juliano e compagni strappano un terzo posto nel 1974 e un secondo nel 1975. Totonno, nel frattempo, viene convocato da Valcareggi per il suo terzo Mondiale, anche questa volta è costretto a viverlo da comprimario: «Nel ’66 Fabbri mi preferì Bulgarelli (e tanto di cappello a Giacomino, che era un fuoriclasse: ma se invece di mandarlo in campo con una gamba sola contro la Corea avessero impiegato me, forse le cose sarebbero cambiate); nel ’70 Valcareggi prese atto del mio cattivo adattamento all’altura e in Messico mi preferì De Sisti; nel ’74 sempre Valcareggi mi preferì Capello e sbagliò: perché io ero molto più forte di Fabio (almeno come giocatore: a parole, lo ammetto, è sempre stato più bravo lui)». La sua ultima partita con la Nazionale (la 18ª in 7 anni) avviene subito dopo Monaco 74, nel tempio dei nuovi profeti del gol, gli Olandesi guidati da Johan Cruijff in una in una gara valida per le qualificazioni per la Coppa Europea, partita poi persa dall’Italia per 3-1.
Successivamente entra in aperta polemica con l’allora Ct Bernardini, sostenendo, a ragione, che i calciatori centro-meridionali non vengono presi troppo in considerazione dai vertici federali. In questa battaglia si ritrova a fianco i soli calciatori della Lazio e così il ’74 è il suo ultimo anno in Nazionale. A proposito di questo episodio dirà: «Era così. A me dicevano: vieni all’Inter, ti difenderanno tutti e giocherai sempre in Nazionale. Zoff divenne titolare in Nazionale dopo che passò alla Juventus pur avendo debuttato quand’era nel Napoli. Giocava sempre Albertosi. Cannavaro e Ferrara hanno avuto fortuna lontano da Napoli». Non raggiunge il sogno di una vita, lo scudetto ma quantomeno si consola alzando al cielo la seconda Coppa Italia del Napoli nel 1976. L’addio al Napoli avviene al termine della contrastata stagione 1977-‘78. Ricorda Juliano: «Venivo da un anno pieno di infortuni. Tendiniti, talloniti. Un giorno perdiamo col Vicenza. Ferlaino dice che si va tutti in ritiro. Anche io che avevo 36 anni, una famiglia e 3 figli. Rispondo che allora smetto, non gioco più: prendo la borsa e torno a casa. Apriti cielo, c’è la finale di coppa Italia ancora da giocare (8 giugno 1978, Inter-Napoli 2-1 n.d.r.), arriva una telefonata, un’altra, e poi un’altra. Decidiamo che prima la gioco e poi smetto».
Ma in estate, durante le vacanze, lo convincono di nuovo. «Sono al mare in Sardegna e viene a parlarmi l’allenatore Di Marzio. Dice che gli servo, vuole un uomo d’esperienza in campo. Siamo d’accordo. Dopo tre giorni un telegramma mi convoca in sede. Urgentemente. Pensavo per il contratto. Vado e scopro che i programmi sono cambiati. Mi dicono che vogliono affidarmi il settore giovanile. Allora si accende la lampadina, e quando si accende la lampadina io le devo andare dietro. Rispondo che ho cambiato idea e che voglio giocare ancora. Chiedo d’essere lasciato libero: in realtà volevo decidere io quando dire basta, non doveva decidere il Napoli. Vado a Bologna, dove c’era Pesaola ad aspettarmi. Quand’è finito il campionato, mi hanno dato una medaglia d’oro e un assegno in bianco per premio. A Bologna ho capito cosa significa vivere».
Chiude con il calcio giocato con 394 presenze e 26 reti nelle 16 stagioni con il Napoli e 15 presenze con 2 reti nella stagione conclusiva al Bologna. Nel 1980 Ferlaino lo richiama e gli affida con pieni poteri la poltrona da Direttore generale. Arrivano subito Krol e Rino Marchesi come allenatore. La squadra stenta un po’ a carburare, c’è di mezzo il terremoto, ma alla fine soltanto una disgraziata autorete di Moreno Ferrario contro l’ultima in classifica, il Perugia di Salvatore Bagni, impedisce agli Azzurri di vincere lo scudetto. Marchesi chiede ed ottiene un robusto ritocco al suo ingaggio, Juliano non è d’accordo e polemicamente toglie il disturbo. Torna nel 1983, richiama Rino Marchesi e nel 1984 realizza il colpo del secolo ingaggiando il grande “Dieguito” Maradona. Ferlaino però è una vita che cerca di catturare Italo Allodi e quando ci riesce, nel 1985, già immagina, conoscendo il suo carattere orgoglioso, che sarà Juliano a farsi da parte non trovandosi al suo agio nel ruolo di “vassallo”. Il suo ultimo Napoli, sempre targato Ferlaino, è datato 1998-‘99, il primo in serie B dopo 33 anni degli Azzurri. Le cose non vanno per il verso giusto e a Juliano non viene offerta la possibilità del riscatto. Certo, suona proprio come una beffa del destino: Juliano né da giocatore, né da dirigente ha potuto coronare il suo sogno di sempre: lo scudetto ma sotto gli occhi coperti dal ciuffo gli è sfilata la storia del calcio napoletano. Lauro e Ferlaino presidenti, Sallustro direttore dello stadio, Zoff e Sivori compagni, Maradona come dipendente.
Fonte: “Storie di Calcio”