Ho avuto l’onore e il piacere di vederlo giocare al vecchio stadio Comunale e ne sono rimasto folgorato fin dal primo istante. Come quando tra un uomo e una donna scatta la scintilla che non li dividerà più per tutta la vita. O almeno una volta succedeva così. Pablito, allora solo Paolino per il suo fisico esile, nell’occasione fece ammattire Morini detto Morgan agendo inesauribile su tutto il fronte d’attacco biancorosso. Il difensore bianconero lo picchiò come un fabbro per tutta la durata dell’incontro ma per sua fortuna rimediò appena una ammonizione. Paolino gli andava via da tutte le parti con la sua tecnica sopraffina e il suo scatto bruciante. Era il Lanerossi Vicenza di Giovan Battista Fabbri, di Faloppa e molti altri ancora. Non erano una squadra, ma una grande famiglia. Lo si vedeva in campo, ognuno correva peraiutare l’altro. Un piacere vederla giocare quella squadra piena di talenti e ricca di valori.
E Paolino ci sguazzava a meraviglia essendone il finalizzatore assoluto. Saranno 24 le reti realizzate al termine del campionato. Capocannoniere della serie A, l’anno prima della serie B.
Dicevo che fin dal primo istante l’ho ammirato e mi sono immedesimato nel personaggio per diverse ragioni. Prima fra tutte perché giocava, almeno nei primi anni di carriera, nel mio ruolo prediletto, ala destra. Tanto per fare qualche nome che ne hanno esaltato il ruolo: Causio, Sala, Conti e mi piace ricordare in casa bianconera Haller, Damiani e Marocchino. E poi era il mio ruolo fin da bambino. Adoravo correre la fascia per servire gli attaccanti. Ma Rossi realizzò, proprio nel Lanerossi Vicenza, che il suo ruolo sarebbe diventato quello di centravanti. Fare gol il suo mestiere, fatto di scatti e contro scatti a velocità doppia dell’avversario. La seconda ragione è che a differenza di molti campioni, non era solito lamentarsi con gli avversari anche se, in diverse circostanze, si vedeva proprio che gli interventi fallosi, erano finalizzati a fargli del male. All’epoca gli attaccanti erano meno tutelati rispetto a quelli di oggi. La terza ragione è legata alla sofferenza dell’uomo. Paolo fu costretto a farsi asportare tre menischi su quattro quando all’epoca ne bastava soltanto uno per rischiare di non giocare mai più. Nonostante ciò era raro vederlo lamentarsi, spesso faceva piangere il suo avversario con l’unica medicina a cui ricorreva: il gol.
La trasformazione di Paolino in Pablito, lo sanno tutti, avvenne al Mondiale del 1978 in Argentina ma soprattutto durante il campionato del mondo del 1982 con alla guida della Nazionale il friulano Enzo Bearzot, soprannominato Il Vecio. Paolo veniva dal periodo più brutto della sua vita calcistica quando venne accusato di fare parte di una combine che gli costò oltre due anni di squalifica. Ma per sua fortuna ci fu una persona e una società che continuarono a credere in lui, Giampiero Boniperti e la Juventus che lo acquistarono.
Fece appena in tempo, prima della magica spedizione spagnola, a disputare tre partite in bianconero segnando in trasferta contro l’Udinese. E da lì cominciò una delle più splendide favole calcistiche della storia. Il suo di sogno ma anche quello di tutti gli italiani. Ad essere sinceri le prime partite del mondiale non furono entusiasmanti. Solo tre miseri pareggi che ci permisero, grazie alla migliore differenza reti, di accedere alla fase finale. Ma il destino era dietro l’angolo perché ci toccò di affrontare l’avversario più difficile e pericoloso dell’intero torneo: il Brasile di Zico, Falcao e Socrates.
Prima di arrivare a disputare lo storico incontro la Nazionale si chiuse a riccio, adottando il silenzio stampa, nominando suo portavoce il saggio Dino Zoff. Tutti i media erano decisamente contro la squadra, in particolare feroci critiche erano mosse verso Paolo Rossi che secondo l’opinione pubblica aveva usurpato il posto a Roberto Pruzzo della Roma ritenuto più meritevole di lui. Ma Il Vecio non volle sentire ragioni riponendo una fiducia smisurata in Rossi. E i fatti gli dettero ragione. Tre reti al Brasile, due alla Polonia e una alla Germania. Italia campione del mondo per la terza volta nella sua storia e Pablito capocannoniere del torneo.
Da lì ricevette anche il Pallone d’oro come solo i grandi hanno saputo fare. Nella Juve vinse due scudetti, la Coppadei Campioni, la Coppa, Uefa e la Coppa Italia. Ma Pablito non è stato soltanto calciatore, ma soprattutto uomo. Gentile, affabile, intelligente, amato da tutti, dedito ai valori andati perduti come la famiglia, il rispetto, l’umiltà e la dignità.
Ci ha lasciato soli troppo presto Pablito Rossi, troppo pochi 64 anni. Ancora una volta ha anticipato tutti. È stato un cacciatore di episodi, un bracconiere di attimi, a cui piaceva il gusto dell’imboscata, per lui la partita scorreva placida prima del profumo del gol.
Per l’Italia è stato un eroe inimitabile soprattutto nel periodo mondiale, tra la Galizia e la Catalogna, per gli stranieri, scoprire che non eravamo così magri così ambigui. Era un uomo garbato, dal tono leggero, buono e sorridente. Rimarrà nella storia del calcio per i suoi attimi condivisi con l’Italia intera.
La nostra vita passerà ma quegli attimi resteranno per sempre. Grazie Paolo per quello che ci hai donato te ne saremo per sempre grati. Un ragazzo che scegliendo di diventare calciatore divenne uomo. Un uomo vero. E lo divenne pur dovendo affrontare quel pezzo di prato che da sempre è zona di guerra: l’area di rigore, decidendo di starci il più a lungo possibile, anzi in certi momenti per sopravviverci, alla ricerca dell’invenzione per battere a rete. Giocava così, sospeso tra una emozione e un’altra, come fa il fulmine prima del baleno. Pablito resterai per sempre mito anche se sei stato un uomo mite ma vero.
Dario Barattin