Se io fossi un Angelo
Nov 4, 2023

Angelo Domenghini corre veloce. Strada libera. Sono quasi le due di notte di lunedì 12 aprile 1965. Anzi di martedì 13, ormai. La sua Alfa Romeo Giulietta TI attraversa viale Certosa, direzione Sesto San Giovanni. Arriva quasi all’incrocio con Viale Monteceneri. Si ritrova da destra un’altra Alfa. Angelo la vede troppo tardi. L’urto è violentissimo. Lo proietta a una ventina di metri di distanza. La Giulietta sbatte, si accartoccia come una foglia. Finisce contro un semaforo. I primi soccorritori assistono a una scena drammatica. Sull’altra Alfa ci sono due ragazzi che se la cavano con qualche graffio. Mentre la Giulietta ha i sedili ricoperti di sangue. Quando Angelo viene faticosamente tirato fuori, le  condizioni sembrano subito gravi.

E’ sotto schock. Al Niguarda servono due trasfusioni. Si teme una frattura al braccio destro , dove si sono conficcati vetro e lamiera. Lo mettono in trazione. C’è poi una lesione al nervo mediano e contusioni varie. Viene giudicato guaribile in quaranta giorni. E’ arrivata intanto una delle sue sorelle. Poi il vicepresidente dell’Inter, Peppino Prisco .

Al quinto giorno, il braccio di Angelo non è più in trazione. Lui può alzarsi. Deve trasferirsi alla clinica San Pellegrino e assumere antibiotici. Preoccupa ancora la ritenzione di due schegge di vetro. Arriva intanto un telegramma di Moratti. E il mago Herrera è una furia : ” Domenghini progrediva ad ogni partita nel suo nuovo ruolo. Anche a Glasgow ha disputato un’ottima gara. E’ una grave perdita”. Angelo è preoccupato. E non solo per i tempi di recupero. Salta infatti fuori che la Giulietta non era sua, ma di un amico. Un garagista al quale l’ha chiesta in prestito perché la sua è dal meccanico. Pare che Angelo stesse andando a Lallio, nel bergamasco, dove vive la sua famiglia. Ma scoppia comunque il caso, perché l’orario dell’incidente non è proprio da atleta. Si parla di altre scappatelle. Gli toccano intanto due multe per le violazioni del codice della strada. E alla fine l’Inter lo assolve col codice morale di Prisco : “Punirlo? S’è già punito da solo”.

Nell’Inter

Un mese dopo lo provano a Somma Lombardo. Un’amichevole vinta 2-0 con gol di Canella e Peirò. Ed Herrera è a bordo campo . E’ lì perchè in quel ragazzo ha sempre creduto fermamente. “Domenghini rientrerà domenica. E’ smanioso di giocare. Non posso più dirgli di no”. San Siro, invece, aveva imparato ad apprezzarlo due anni prima. Precisamente domenica 2 giugno ‘63 . Perché già con la sua Atalanta, Angelo Domenghini sembra avere un tempo di gioco diverso . Il primo gol incornando un cross di Nielsen. Poi sbucando in mezzo ai difensori. L’ultimo su invito di Mereghetti, carica il destro e rientra. Sinistro rimpallato, la riprende, mette a sedere il portiere e appoggia dentro. Accenna un sorriso alzando la Coppa Italia, l’unica nella storia della Dea. E bisognerà aspettare trent’anni per un’altra tripletta in finale . Ha anche debuttato in azzurro, passando dall’incubatore della “Nazionale B” . A Firenze contro la Bulgaria avevano giocato: Anzolin, Burgnich, Buzzacchera, Bolchi, Guarneri, Picchi, Domenghini, Mazzola, Nicolè, Dell’Angelo, Pascutti. La trasmettono sul canale nazionale anche se in differita. Lui non ne azzecca una, colpa dell’emozione. Al suo posto entra Renna.

A San Siro con la maglia dell’Inter

Anche i primi tempi all’Inter, Angelo ha un rendimento altalenante. Talvolta appare impacciato , confusionario. A tratti anche stralunato , come schiacciato dall’eccessiva tensione. E l’inesperienza fa il resto. Si dice che senta troppo la partita : “Sono un’ala tattica che gioca di punta partendo da lontano”. Ma silenziosamente è in atto la mutazione, perché il mago, pur contrabbandandolo per centravanti, lo impiega anche ala e all’occorrenza mezzala. E San Siro lo aspetta, lo incoraggia anche nelle giornate storte. Col Messina, Picchi si fa male dopo pochi minuti. Malatrasi scala libero e il numero 11 Angelo Domenghini passa in mediana. Quel giorno riesce anche a buttarla dentro. Alcuni a Milano lo chiamano Einstein. Pare per la sua anima limpida e poi perché sempre imbarazzato in mezzo alle personalità ingombranti dell’Inter. E’ raro anche sentire la voce di Angelo . Poche e ben educate parole. Come se non avesse nulla da offrire più che il suo silenzio. E non ride mai. Nemmeno quando va a caccia e si rilassa. Anche perché ci va con Burgnich. Prova a togliersi dall’impaccio solo tirando fuori qualche barzelletta . I compagni si rassegnano e stanno ad ascoltare. Poi lo prendono in giro. A Roma si vince 3-1 : centro di Suarez e stacco perentorio di testa alle spalle di Cudicini. Il gol lo carica: scovata una palla vagante, gran botta che chiude la partita. Ne segna un altro, annullato per offside. Risolve anche a Mantova, su un retropassaggio suicida : Zoff neanche la vede. Il Milan è ancora avanti di tre punti , ma c’è il derby.

Nel Cagliari

Herrera prova a cambiargli il nome oltre che il ruolo: ”Preferisco Domingo là davanti perché lo ritengo più abile a giocare in profondità. Ma l’ho voluto anche perché è un jolly”. Poi gli batte sulla spalla: “ Sei in forma. Domenica marcherai Rivera ”. E lo rimanda al centro dell’ attacco. Una bella domenica di primavera con ottantamila persone. Un venditore ambulante smercia foto di Angelo Domenghini a trecento lire. Lui già al primo minuto duetta con Mazzola. Salva Trapattoni. Poi Barluzzi gli nega il gol. Alla fine lo trova su combinazione Suarez – Jair. L’Inter vince 5-2 e prepara il sorpasso. Angelo scambia la maglia con Amarildo, l’altro centravanti. L’indomani, porta la numero 9 rossonera alla Madonna della chiesa di Lallio. Nel rassicurante 7-0 al Brescia segna una delle sue tante doppiette. E’ lo sprint irresistibile per un altro scudetto . Quello della stella . Qualcuno lo sente parlare per la prima volta: “So che c’era Fabbri in tribuna. Spero che si ricordi di me. Ora mi sento proprio bene. Il braccio è guarito. Sono due anni che attendo questo momento. Spero sia arrivato”. E a Parigi contro la Francia finalmente gioca. I concorrenti per la maglia sono Marino Perani e Gigi Meroni. Angelo delude e finisce nella baruffa tra il tecnico e gl’interisti . Lui è quello introverso. Ma quando parla, dice la verità: “Mi sono stancato inutilmente. Dovevo marcare un avversario e sorreggere il centrocampo”. Fabbri chiude il discorso: “Ho scelto un modulo di gioco. Chi non si adatta , va a casa”. E gli evita una Corea.

Nel Cagliari sulle figurine Panini

La mutazione intanto è completata: Angelo Domenghini è diventato una vera mezzala di spola, lo sgobbone. Le sue morbide digressioni , il tamponamento sornione e l’istinto nomade sono un calcio all’apparenza semplice, quasi elementare. Ma dicono che anche la semplicità sia il risultato di un lungo percorso. Diventa indispensabile anche in Coppa dei Campioni. Davanti ai centomila dello stadio Lenin. Poi Budapest e il Bernabeu: “Non ho mai corso tanto in vita mia”. In campionato la partita scudetto è Inter-Juve, una battaglia campale : “Dopo pochi minuti Salvadore mi ha rivolto una frase poco felice, forse nell’intento di innervosirmi. Mi spiace ma non c’era alcun motivo per offendermi”. Proprio lui ha la palla della vittoria. E impatta troppo bene. Anche Anzolin, che le ha prese tutte, è battuto. Esce di un centimetro. L’Inter si ferma sull’1-1 e peserà alla fine. Angelo si ritrova negli spogliatoi con la gamba penzoloni, completamente fasciata. Non ce la farà, dicono, per la trasferta di Napoli. Ma poi è in campo regolarmente dall’inizio. Slalom, tocchi di prima. Un sinistro al lato di poco, un missile respinto a stento da Bandoni. Poi un’incornata che accarezza la traversa. Come tante altre volte. A un quarto d’ora dalla fine, rallenta e si sposta all’ala. Gli diagnosticano subito uno stiramento dell’adduttore.

Lo storico Cagliari dell’altrettanto storico Scudetto

Non si regge in piedi. Viene avanti lentamente appoggiandosi al muro. Un saltello dopo l’altro per non caricare la gamba. E la testa è bassa, guarda la coscia fasciata per la seconda domenica consecutiva: “Mi dispiace non aver potuto dare un apporto alla squadra nel finale. E’ stato in quell’azione in cui Bedin mi ha allungato la palla in area . Io l’ho fermata col sinistro , poi ho cercato di tirare col destro e sono rimasto bloccato. Un dolore lancinante all’inguine. Non potevo proprio muovermi. E chissà cosa avrei dato per correre ancora. Non ho fortuna, decisamente”.  Passa Pesaola: “Domenghini è stato il migliore in campo”. Lo guarda . E’ lì steso sul lettino, coi complimenti dei compagni: “Proprio qui con la Nazionale contro la Romania, mi fischiarono. Chissà perché io devo sempre avere dei fischi . Oggi non si sono nemmeno accorti di me”.  Il San Paolo invece l’ha applaudito. E tutti parlano di lui . Come se avessero finalmente capito che non è soltanto lo sgobbone. Arrivano anche dei ragazzini e gli chiedono l’autografo. Lui è sorpreso di tante attenzioni. Poi si appoggia al muro e firma. E’ la variante italica del calciatore britannico , molto apprezzato dopo la vittoria mondiale: dinamico, vigoroso . E che tira da fuori. E il signor Valcareggi, che l’ha già diretto all’Atalanta, gli dà definitivamente fiducia. Tocca alla Svizzera, decisiva per gli Europei : 4-0 e doppietta. Ma zoppicando per tutta la partita: “Mi facevano male la caviglia e il ginocchio, ma quando Mazzola mi ha dato quel pallone, non sono riuscito a trattenermi. Vincevamo già per 3-0, mi sono buttato e il totale è salito a quattro. Un gol tutto interista: da Facchetti a Mazzola, da Mazzola a me”. Andiamo ai quarti.

In Nazionale con Sandrino Mazzola

La Bulgaria del signor Asparuhov è un brutto cliente. A Sofia abbiamo perso 3-2. Nel ritorno servono due gol: “Nel primo tempo non c’è stata molta iniziativa a centrocampo e quindi palloni non ne sono arrivati molti. La posizione di Facchetti mi ha ostacolato. Sono stato costretto a spostarmi al centro per non ritrovarmelo all’ala destra. Nella ripresa in mezzo c’è stata più decisione e palloni ne sono arrivati di più”.  Al decimo del secondo tempo, Mazzola viene fermato a gamba tesa al limite dell’area. Punizione indiretta e ci va Rivera: “Non c’era nulla di preparato. Gli ho detto a bassa voce Toccala indietro. Lui l’ha fatto”.   Siamo tra le prime quattro d’Europa. E paese ospitante della fase finale. Valcareggi predica serenità: “Sappiamo che i russi saranno in undici come noi”. E poi la giochiamo tutta in dieci. Angelo Domenghini fa la mezzala e Afonin non ci capisce nulla. Nei supplementari l’Italia rimane in nove e la nostra mezzala passa terzino.  Fino al centodiciannovesimo minuto. Sponda di Prati e lui arriva da chissà dove . E’ velocissimo, tanto che Nando Martellini non lo riconosce nemmeno. Poi colpisce stupendamente. L’arbitro fischia la fine. 

In maglia azzurra

Quel tiro schioccante ha impattato con il palo sinistro. Che vibra mentre tutti rientrano negli spogliatoi. Mentre vinciamo alla monetina. Mentre Juliano, Facchetti, Bercellino e gli altri rientrano in campo a festeggiare. Mentre si spengono le luci e si pensa alla finale con la Jugoslavia. Quel palo vibra anche adesso . E finchè anche uno solo se ne ricorderà.  Negli spogliatoi Angelo si piega a cercare il ghiaccio . Poi una bibita. “Ora so quanto posso fare e ho fiducia in me”. Nella prima finale è lui che salva la baracca: “Non mi sento un protagonista. Non credo di aver mai fatto cose mirabili. Possono farle tutti. Ogni risultato nel calcio si ottiene in undici. E’ stata una gran legnata su punizione. Ho visto aprirsi la barriera e ho indovinato lo spiraglio giusto”. E dopo cinque ore e mezza di partite in sette giorni, con un gol, un palo , un incrocio dei pali e un assist decisivo, guarda il tabellone luminoso dell’Olimpico. Al centro, in grande, c’è scritto: “ITALIA”.

Euro 1968, l’Italia è prima! Domenghini è quello con il pallone

Lunedì 24 giugno 1968, al salone degli specchi del Quirinale ci sono i campioni d’Europa . Il presidente Giuseppe Saragat riesce a riconoscere Rivera . E anche Prati. Poi si complimenta con tutti: “Bravi, bravi. Quest’incontro, che io stesso ho voluto, vuole essere un’attestazione di sincero e sentito compiacimento e insieme un’attestazione di lode e di plauso per quanti hanno contribuito a una così significativa affermazione dello sport italiano. Siete i più giovani cavalieri d’Italia”. Alla fine si ferma e chiede : “Domingo? Lei è forse oriundo? E’ forse di origine spagnola?”. “Spagnolo di Bergamo”.  E’ il suo momento. E qualcuno giura di averlo visto sorridere. Anche se c’è da finire il servizio militare. Dopo la crisi del settimo anno del mago, l’Inter rimane però nell’anonimato. E San Siro inizia a protestare. Stavolta Angelo non si sbaglia. I fischi sono anche per lui. E il 19 gennaio 1969 c’è la risposta. E’ il nono minuto del secondo tempo. Su un cross radente di Mazzola, proprio lui anticipa tutti e batte il portiere De Min: Inter-Verona 1-0. Ma Angelo non festeggia . E non torna nemmeno a centrocampo. Rimane dentro la porta a gesticolare verso la folla. E da quel momento viene fischiato a ogni tocco di palla. E’ definitivamente imploso in un tumulto emotivo. Immerso in quel gorgo di ululati e insulti. Passano cinque minuti: ignora un compagno vicino e calcia il pallone violentemente verso un incomprensibile fallo laterale. Come se volesse colpire qualcuno . Poi si rivolge alla panchina, alza il braccio destro e chiede il cambio.

Accontentato. Si avvia a testa bassa verso l’uscita . All’inizio lentamente. Poi accelera, corre. L’ ultimo sguardo verso le tribune . Per applaudire tutti, sinceramente. Negli spogliatoi arriva Quarenghi, il medico dell’Inter. Poi Peppino Meazza con altri dirigenti. Gli danno una camomilla. Esce dallo stadio scortato da Jair, Burgnich e Suarez . “Lasciatelo in pace , almeno adesso”. Fischi e applausi. Arriva finalmente al pullman . Sale e si accende una sigaretta dietro la tendina. “I risentimenti uno se li porta dietro. Non fanno bene a un atleta . Tengo a precisare che io non ho fatto gesti offensivi verso il pubblico . La verità è che la gente continuava a fischiarmi. Quando ho segnato, sembrava avesse segnato uno del Verona. Non mi sentivo particolarmente nervoso, ma ho capito che era meglio andarsene. Mazzola, che era a due passi, mi ha urlato Tieni duro, resta in campo. Ma la folla ha continuato a inveire. Dopo ho pianto”. Lo mandano dieci giorni a Foppolo, in montagna .

Per lui è il confino. Anche se Foppolo è provincia di Bergamo . Ma per fargli lasciare definitivamente l’Inter non basta il pregiudizio d’immagine. Serve una donna. Si chiama Renata Fraizzoli: “Preferisco vedere giocare Corso per dieci minuti che Domenghini per un’ora e mezza”. La signora è la moglie del nuovo presidente. Così alla presentazione ufficiale della squadra, il buon Fraizzoli allunga la mano ad Angelo: “Bravo, lei corre molto”. “ Vada al diavolo, lei e sua moglie”. Ceduto al Cagliari. Apprende la notizia a Riccione. E’ martedì 8 luglio 1969. Lo viene a sapere da un giornalista: “Hanno firmato? E’ proprio vero? In realtà è stato il campionato dell’Inter tutto sbagliato. E il sottoscritto degli errori è stato vittima. Con pochi altri. Se Corso stava fermo e sbagliava cento passaggi, tutti zitti. Ma se a sbagliare era Domenghini, apriti cielo. E secondo alcuni, avrei dato segni di declino. No , non è giusto. Lì sono stato anche campione del mondo. Hanno cercato in tutti i modi di buttarmi giù e non ci sono riusciti. Ma quando giocherò a Milano, non sarò emozionato e ricorderò certe ingenerose riprovazioni. E mi dispiace molto perchè volevo finire la mia carriera nell’Inter, mettere dei soldi da parte per il domani. Perchè so cosa significa guadagnare. Ho lavorato sodo due anni da tipografo e due anni nella sale di montaggio come elettrotecnico”.

Il ritorno a San Siro con il Cagliari

Quando, per meno di trecentomila lire, l’aveva accalappiato il calcio : “In campo non mi sono mai risparmiato, ho dato tutto. Perché sono fatto così. Non bado se siamo in Nazionale, in coppa o in campionato. All’Inter non l’hanno capito e peggio per loro. Ora tutti si accorgeranno di chi è ancora Domenghini. E poi l’ha detto anche Rocco che nel cambio tra me, Gori e Poli con Boninsegna, ci ha guadagnato il Cagliari”. La sua famiglia ci rimane male. Soprattutto il papà. Prima il lunedì Angelo tornava quasi sempre a Lallio. Adesso li vedrà molto meno: “Ci sono gli aerei. Il Cagliari è una grossa squadra , l’ambiente è sano. E poi in Sardegna si può andare a caccia”. C’è Cagliari-Vicenza. Greatti recupera palla e lo serve a destra sulla tre quarti. Lui molla Volpato, si beve il libero Calosi e scarica accanto al palo sinistro. E’ il primo gol del Cagliari in campionato: “Lotteremo per lo Scudetto. Quattro centrocampisti e due punte. E’ un modulo micidiale. Mi ricorda quello di Herrera”. Anche se col mago si andava a letto alle dieci anche a Capodanno :  “Questa maniera di Scopigno di trattare i giocatori è l’ideale. Ci responsabilizza “. Angelo Domenghini piace anche senza palla, negli spazi. Splendida l’intesa con Nenè. E c’è la benedizione di Gigi Riva. Anche se in campo ogni tanto si mandano a quel paese: “Avevamo bisogno di lui. Ci permette di manovrare di più all’attacco, un gioco più corale”. Tre punti di vantaggio a fine ottobre. Non li prendono più.

“Domingo” nella Roma

Col Bari sono in trentamila, tutti rigorosamente in piedi . Le strade intorno all’Amsicora intasate già alle undici e mezza del mattino. La statua di Carlo Felice è avvolta di bianco, rosso e blu. Segna Riva, chiude Gori. Al fischio finale si corre verso lo spogliatoio, cercando di rimanere vestiti. E champagne. Anche sulla testa. Angelo Domenghini, numero sette del Cagliari neo campione d’Italia, urla. Urla . Urla ancora. E i pugni chiusi verso il cielo. Poi prende fiato e riprende a urlare. E a saltare sulla panca. Con due salti arriva sotto le docce. Uno scroscio felice e torna rapido sulla panca. Poi, finalmente, rende tutti partecipi di un pensiero: “Lo Scudetto ? Lo dedico all’Inter”. E si va in trasferta a Milano. La partita non conta nulla per la classifica , ma i compagni gli fanno un regalo: avrà la fascia di capitano. In quello stadio. In Messico la squadra più rappresentata è il Cagliari. Si è portata anche il prete: “Con la Svezia è stato un po’ fortunoso : batto un calcio d’angolo verso Facchetti, che mi restituisce il pallone. Non sapendo a chi riproporre l’azione, ho tirato forte. Fidando nella velocità della palla. Il portiere con una spanciata mi ha dato una mano. Ma era un tiro carogna , con l’effetto. Contro l’Uruguay ho risentito del lavoro che avevo fatto con la Svezia . Perché oltre al gol, avevo fatto il resto : corse folli avanti e indietro con l’altura che mozza il respiro. Ebbene, quando nell’intervallo mi si è detto che avrei riposato, ne sono stato lieto. Ma quando Valcareggi mi ha fatto uscire con Israele, ho dato letteralmente i numeri . Riconosco di aver esagerato”.

Poi la bolgia di Toluca: “Gli automatismi sono stati perfezionati con il Messico. E quel gol è mio”. L’ennesima prova della sua tetragona fedeltà alla causa quattrocento metri più giù. All’Azteca . Contro i tedeschi. Interviene il medico, ma Angelo è chiaro: “Dottore, se mi toglie, le do un cazzotto forte forte”. E’ fradicio dalla fatica, ma non si sceglie quando è ora di lottare: “Dopo il gol di Schnellinger , noi avevamo tutto da perdere . Ho amicizia e stima per Rivera. Ma entrato lui, la ripresa è stata un calvario. Eravamo stanchi e Mazzola dava più una mano in difesa. E poi i tedeschi erano organizzati a metà campo da padreterni”. Corre, ciondola e corre. Pedala, si dissangua. Sembra quasi decomporsi. Ma quell’applicazione seriale e un po’ sgraziata dello scatto palla al piede non è soltanto un grugnito disperato. Sembra l’unico modo di colpire la corazza tedesca: “Splendido il gol di Rivera. E la volata di trenta metri di Boninsegna. I frammenti d’oro spuntano fuori e mettono in ombra il resto”.

E l’ultima palla è sua. Galoppata e la mette in mezzo. Dovrebbe inseguirlo Held, ma ha mollato. I difensori tedeschi sono tutti vicini, forse per non cadere. Stavolta Yamasaki dice che è tutto. Angelo ha la faccia di un sopravvissuto: “Quando torno indietro con la memoria al Messico, metto tutto assieme , immagini buone o meno buone , momenti di ansia , di tensione, di esaltazione, come metalli in un crogiolo. Perché è stata un’avventura dorata , indimenticabile, una vicenda alla quale chi vi ha partecipato non può che gloriarsene . Perlomeno per se stesso. Per noi quando siamo tornati, era come se avessimo vinto i mondiali. Certamente lontana da noi l’idea che ci stessero attendendo a Roma per una manifestazione selvaggia. E’ stato allestito un palcoscenico per il nostro processo. La violenza nel calcio è cominciata allora, in quel giorno di estate romana del 1970. Una cosa inaudita, una vergogna da far arrossire tutti dal primo all’ultimo”. Il Cagliari si ferma al settantaseiesimo di Austria-Italia, per l’intervento del signor Hof su Gigi Riva. Angelo è lì . Guarda quel piede e si dispera. Trema la voce: “Per noi del Cagliari è finita. Cominceremo ad accorgercene in Coppa dei Campioni”.

Domenghini nel Verona

Un lunedì se ne torna a Lallio e aspetta la telefonata. Quella di Valcareggi. Lo dice anche ai giornalisti. Passano dieci mesi. Quando arriva , è San Siro. Ancora. E fischi. Anche a Cagliari assaggia la panchina. Nella partitella del giovedì forse ci mette troppo impegno. Gigi Riva non apprezza. Ma non è la solita litigata col vaffa e poi alla fine passa tutto. Stavolta lo scontro prosegue negli spogliatoi. Un’estate Angelo se ne va in Costa Smeralda con la giovane moglie. Ha deciso di anticipare le vacanze. E ha scelto Liscia di Vacca perchè lì non arrivano nemmeno i giornali. A due passi dal mare: “Affretto le ferie per uscire dal mondo . Preferisco saltare a piè pari i mondiali. Ho nostalgia della maglia azzurra. E di taluni compagni. Potrei essere lì con loro. Invece sono qui a rodermi di una vecchiaia che non avverto . Quest’anno nella Roma , mi sono adattato a fare il regista, disputando un campionato a livello di Inter e Cagliari. Ho sempre giocato bene e se avessi fatto parte di una squadra da scudetto , sarei stato preso in considerazione. Certo, se giocano Causio e Mazzola , significa che hanno dimostrato di meritare fiducia. Adesso è stata anche sfatata la leggenda secondo la quale io sarei stato un pupillo di Valcareggi. Peccato ci tenevo tanto. Sono stato escluso anche dalla lista dei quaranta . Completamente dimenticato”.

C’è una fugace serie B col Verona . Anche perché si vince il campionato. Poi Angelo si spezza il tendine. E’ al minimo di stipendio . Sembra il capolinea. Quando si rimette in piedi, dà una mano all’allenatore del Verona . A proposito, si chiama Valcareggi. Ed è il momento dei buoni propositi . Anche di quelli che non può onorare : “Sto pagando tutta la fortuna che ho avuto nella mia carriera . Ma ho la scorza dura e vedrete che tornerò. Nel calcio sono mutate molte cose. C’è più agonismo, si corre di più, ma un angolino per me si deve ancora trovare. Una cosa è certa: quando smetto, non farò l’allenatore”.  Si prepara con l’Inter e aspetta una chiamata. Crossa e tira in porta come ai bei tempi. Lo recluta il Foggia: “Non vedo l’ora di ricominciare. So che non sarà facile, ma io amo il calcio e non per i soldi che fa guadagnare. Sono contentissimo. Se non corressi su quel campo, mi sentirei un uomo finito ”.

A Foggia

Puricelli lo battezza centravanti arretrato. Il rientro è contro la Juve. Quando salta in successione Causio, Marchetti e Benetti , strappa l’applauso dello Zaccheria. Lunghissimo. Due settimane dopo, contro il Napoli. Al quarantunesimo recupera palla ai venti metri e tira. La traiettoria è beffarda. La palla salta davanti al portiere e va dentro. Adesso è proprio tornato.

Ernesto Consolo

Da Soccernews24.it

Condividi su: