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Era pettinato con la riga di lato, stava dritto e guardava avanti, tirava da fuori area e andava lontano, aveva cominciato a giocare solo, davanti a un muro, poi sui campetti di Tor Marancia, e quando Liedholm gli disse di mettersi in mezzo e dirigere il gioco, lo fece e divenne: Agostino Di Bartolomei, quello che non sbagliava mai. A dieci anni dalla partita più importante della sua vita, la finale di coppa Campioni Roma – Liverpool, il 30 maggio 1994 si sentì: “chiuso in un buco”, e se ne liberò sparandosi al cuore.
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Ora, suo figlio Luca ha ritrovato “Il manuale del calcio” che aveva scritto, la Fandango l’ha pubblicato (pag. 272, euro 15), e l’hanno fatto tornare, con la sua voce, i suoi pensieri, persino la sua faccia che spunta in certe pagine e con tutto il carico di affetto per i ragazzini, di meticolosità che si divide in ordinati dettagliatissimi comandamenti, con la forza di chi stava in campo come nella vita, senza distinzione, con una lealtà che oggi è introvabile, una predisposizione allo sport come valore non solo come lavoro, una scelta di vita, con una missione. Provate a rivederlo correre sui campi, non troverete un gesto fuori posto, c’è una pulizia che dai suoi movimenti arriva alle sue parole, una compostezza introvabile nel calcio di oggi.
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Non ci sono eredi per calciatori così, ma libri, appunto, manuali. Perché difficile non è andare a tirare il primo rigore della finale di Coppa Campioni, ma segnarlo e incoraggiare gli altri, anche quando poi sbagliano, e perdi. Il mondo di Agostino Di Bartolomei sta tutto nelle pagine finali del Manuale, nella scelta delle interviste a supporto del suo metodo: Nils Liedholm (il maestro), Giampiero Boniperti (il presidente avversario), Sandro Ciotti (la voce). Basta unire i punti che legano queste persone per capire le sue scelte, sono tre figure emblematiche: uno dei più grandi allenatori passati per il campionato italiano, lo svedese che allenò Roma e Milan; il migliore presidente-calciatore della Juventus; e la voce calcistica più bella della radio. Leggendo Di Bartolomei, si scopre che non lascia niente al caso, si prova una tenerezza enorme, perché ogni pagina è una carezza a chi legge e poi si allena, a chi ha deciso di educarsi giocando, di cercare regole di vita calciando un pallone.
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Appare il senso di responsabilità da capitano vero, uno che odiava i gesti osceni e quelli cattivi, i linguaggi violenti e quelli inutilmente polemici, era un calciatore fuori dalla mischia, bravo e distante, fondante ma discreto, una presenza fissa ma non prevaricante, uno che bastava ti guardasse senza bisogno di dire.
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Un senatore romano, di quelli saggi che piacciono agli americani, che parlano solo quando è in pericolo la Repubblica, di quelli disposti a cedere tutto per il bene comune. Un costruttore di vita e di gioco, di squadre e di uomini, un educatore, che non cancelli, che non dimentichi, perché ti entra subito e con autorevolezza come esempio da seguire. Di Bartolomei aveva la cognizione del dolore e del sacrificio, aveva visto da vicino come fosse facile dimenticare da dove si viene e usare il calcio per altri scopi, era un estraneo al mondo che amava, e questo Manuale è un documento, un autoritratto, che comincia con l’elogio della semplicità, con la centralità del gesto: «Si può giocare in una piazza, per strada, su di un prato, basta avere 4 sassi per fare due porte e un pallone ben gonfiato (o anche un po’ sgonfio)». Nell’«anche un po’ sgonfio», c’è tutto Di Bartolomei.
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Il suo Manuale: consigli e interviste, è il tentativo di salvare il bambino dal fango, di dirgli che sì, ci sono campi diversi, e che prima di arrivare al gol, bisogna andare sul fondo e crossare per gli altri, il calcio è un gioco di squadra, di generosità e distribuzione, di umiltà e prevaricazione, ogni gesto è una scelta che va costruita e no, non bastano le scarpe lucide. In ogni pagina, con l’attenzione di un padre ma senza ossessioni, gli dice che ci sono regole da rispettare, metodi da seguire e sacrifici da fare, non per diventare famosi ma uomini: dal basso all’alto, dal muro al campo.
Marco Ciriello