Non erano solo i capitani delle due squadre di Milano, l’Inter e il Milan, ma due campioni, con la C maiuscola, in campo e fuori. Interpretavano un modo di giocare a calcio totalmente diverso, ma ugualmente tecnici e critica erano scettici sulle possibilità che potessero giocare insieme, come se fossero le due “prime donne” di un balletto, che avrebbero potuto creare un conflitto destinato a rovinare lo spettacolo, sbagliando totalmente. I Mondiali del 1970, in Messico vennero condizionati dalla scelta dell’allenatore della nostra nazionale, Ferruccio Valcareggi, di farli giocare alternativamente, inventando la famosissima “staffetta”, cioè schierandoli per un tempo a testa. Gli italiani si erano divisi, fra favorevoli e contrari. Si era creata una rivalità fra i due campioni, sul modello di Coppi o Bartali, Benvenuti o Mazzinghi o, in anni più recenti, Rossi o Biagi, come se scegliendone uno, l’altro improvvisamente diventasse scarso. Alessandro Mazzola, detto Sandro, era nato a Torino l’otto novembre del 1942. Figlio d’arte, suo papà era Valentino, il capitano del Grande Torino. La leggendaria squadra vincitrice di cinque scudetti consecutivi che, rientrando in aereo da una amichevole giocata a Lisbona contro il Benfica, a causa della nebbia, andò a schiantarsi contro la Basilica di Superga in fase di atterraggio. Erano le 16,58 del 4 maggio 1949, una data indelebile nella storia del calcio, non solo italiano, che viene ricordata ogni anno, anche dai tifosi non granata. Il giorno del funerale quasi un milione di persone prese parte all’ultimo saluto ai giocatori e lo shock fu talmente grande che l’anno seguente la nazionale italiana andò ai Mondiali di calcio, disputati in Brasile, in nave.
Sandro Mazzola era consapevole sia della bravura di suo padre, non a caso capitano del Torino, che della notorietà datagli dal cognome che portava e oggi possiamo dire, a carriera conclusa, che lo ha onorato nel modo migliore. Esordì in prima squadra in giovanissima età, circondato da quei grandissimi campioni che avevano portato l’Inter ai vertici mondiali, con in panchina il “mago Herrera”, ai tempi uno fra i più bravi allenatori al mondo. Sicuramente il precursore dello Special One, l’allenatore portoghese Mourinho. Il palmarès di “Sandrino” è di primo piano, quattro campionati nazionali, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali, capitano dell’Inter per sette stagioni dal 1970 al 1977, secondo nella classifica per il Pallone d’Oro, nel 1971, dietro ad un olandese, scusate la battuta, al calciatore Olandese fra i più forti della storia calcistica, Johan Cruijff. L’interista fu migliore marcatore nella Coppa dei Campioni del 1964 e del campionato italiano del 1965. Ha giocato dal 1960 al 1977 collezionando 565 presenze e 158 reti. Leggero come una libellula, veloce come un felino, basava il suo modo di giocare sulla rapidità e sul dribbling, superando facilmente i suoi avversari, palla al piede, correndo a velocità superiori a tutti e finalizzando spesso le conclusioni d’attacco con tiri verso la porta avversaria. Un calcio più alla brasiliana che all’europea, con ottimi risultati per l’Inter del Mago e per sè stesso.
Sull’altra sponda di Milano, al Milan, splendeva la stella di un altro campione, Gianni Rivera. Leggermente più giovane dell’interista, era nato ad Alessandria il 18 agosto 1943. Aveva esordito nella massima serie a soli sedici anni. Passato al Milan l’anno successivo ed inserito in un gruppo di campioni vi è rimasto per diciannove stagioni, sia in anni felici che in quelli bui, dodici dei quali portando la fascia di capitano. L’allenatore che maggiormente ha evidenziato la sua bravura è stato il “Paron” Rocco, il contro divo, che vinse tutto.
Gianni fu il primo italiano a vincere il Pallone d’Oro nel 1969 e in anni recenti è stato classificato fra i numeri Dieci più grandi della storia del calcio, per intenderci, vicino a Pelè e Maradona, davanti a Platini e Zidane. Tre volte campione d’Italia, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe, con 527 presenze in serie A e ben 128 gol realizzati, il centrocampista più prolifico nella storia della massima serie. Semplicemente il “Golden Boy” come venne soprannominato, il ragazzo d’oro, “Cuore e Bandiera” della Milano rossonera.
Elegante come un ballerino, intelligente come una volpe, era un regista che riusciva con i suoi passaggi, i suoi lanci a mandare in gol ogni compagno. Un vero leader, un trascinatore, bravissimo nel dribbling e pronto alla realizzazione. Indimenticabile il suo gol contro la Germania, nella semifinale del Messico, quello della definitiva vittoria per 4 a 3 ai tempi supplementari, che spalancò le porte alla finale contro il Brasile.
La finale la perdemmo, ma Gianni Rivera giocò, inspiegabilmente, solo pochi minuti finali. Mesi dopo trapelò l’indiscrezione che i numerosi giocatori interisti inseriti in quella nazionale avessero fatto pressione sull’allenatore perché il “milanista” non giocasse. Probabilmente contro i brasiliani che schieravano fior fiori di campioni, il più noto dei quali era Pelè, “O Rei”, si sarebbe perso anche con Rivera in campo. Fu ugualmente un “suicidio” sportivo, che l’allenatore non seppe evitare e che gli costò la panchina. Tornarono in Italia da sconfitti, tutti tranne uno. Un giocatore unico, come solo pochi sanno essere.