Questa è in poche parole la parabola di Paolo Rossi che dal 1980 al 1982 visse i due anni più importanti della sua vita. “Ho pensato di lasciare l’Italia e smettere. Mi ha salvato la consapevolezza di essere innocente”.
I primi tempi ebbe la stessa reazione di Gregor Samsa nella Metamorfosi di Kafka. È un incubo, un lungo incubo, prima o poi mi sveglio e tutto sparisce. No, non sono io, quello che mi sta succedendo è irreale. Invece era terribilmente vero. Paolo Rossi non si era trasformato in uno scarafaggio ma in un campione di calcio senza calcio. Di più: un traditore della fedeltà dei tifosi; un giocatore dalla faccia pulita, ricco e realizzato, che si era venduto per un paio di milioni e un paio di gol.
Mese di marzo, anno di grazia 1980. Il fruttivendolo Massimo Cruciani, stanco di pagare giocatori e perdere soldi in scommesse per risultati di partite che non si avverano, fa un esposto alla magistratura. Chiama in causa il suo compagno di merende, il ristoratore Alvaro Trinca, e denuncia 27 giocatori di A e B di aver preso assegni dai 10 ai 15 milioni per truccare partite. Domenica 23 marzo il blitz: vengono arrestati, negli stadi, il presidente del Milan, Felice Colombo, e 12 giocatori. Il 29 aprile anche Rossi entra ufficialmente nella pagina più squallida del calcio italiano, il Calcioscommesse. Essendo il giocatore più famoso, ne diventa la copertina. Viene sospeso dalla Disciplinare, non può più giocare nel suo Perugia e tantomeno in nazionale.
Poi arrivano i processi e le condanne. Le più dure: Milan e Lazio in B; Colombo, Albertosi (Milan) e Cacciatori (Avellino) radiati. Cinque anni di squalifica per Della Martira, compagno – galeotto nel Perugia, e Pellegrini (Avellino). Per Rossi e Zecchini gli anni sono tre. Poi la Caf aumenterà il castigo per alcuni, come Giordano e Manfredonia (Lazio) che passano da nove mesi a tre anni e sei mesi, e lo diminuirà per altri, come Rossi: due anni. Siamo in luglio. Paolo Rossi ha capito che non è un incubo. Comincia la più brutta estate della sua vita. È proprio lui, uno dei giocatori che non giocheranno, che perde 24 mesi di una carriera in ascesa, di ingaggi milionari. E quando ritorno, come sarò? Ho perso tutto, forse? È proprio lui che viene guardato di sottecchi, che capta commenti sottovoce: “Chi se lo aspettava da Paolo Rossi, un così bravo ragazzo. E poi che gli fregava di due milioni e due gol in più?“.
Qui sta il punto: Rossi non è mai riuscito a capire come abbiano potuto credere a loschi figuri e non a lui. Soprattutto, come abbiano potuto credere che si sarebbe venduto per così poco. Condannato per testimonianze e una partita: Avellino – Perugia 2-2, doppietta sua. Uno dei pochi risultati finiti come Trinca e Cruciani desideravano.
Paolo Rossi – come scrive Storie di Calcio – riesce a sorridere di tutta la faccenda, anche perchè il futuro subito dopo gli ha riservato un’ estate da resurrezione, un’estate da re al mondiale di Spagna. Risarcimento del destino? Forse.
Forse Pablito ha trovato la legge e non la giustizia. La verità, spesso, è solo un desiderio. È rimasta tale. Colpevole con dolo? Colpevole d’ingenuità? Innocente? Qui non si giudica, si ricorda. E la memoria è la cosa più umana che ci sia. Rimuove delle cose, ne porta a galla delle altre. Rossi racconta, e dice anche qualcosa che non aveva mai detto. L’estate più brutta ha origine nell’inverno.
Si parte dalla famosa tombola di Vietri sul Mare, ritiro del Perugia che prepara la gara con l’Avellino. Paolo Rossi sorseggia un’aranciata e racconta: “Sto giocando coi compagni quando arriva Della Martira e mi dice: ‘Paolo, vieni un attimo che ti presento qualcuno’. Mi alzo e penso ai soliti tifosi, con Della Martira ci sono Crociani, Cruciani, come si chiamava? e un altro tipo (Bartolucci, amico di Cruciani, NdR.). Il mio compagno mi dice: ‘Sai, l’Avellino sarebbe d’accordo per pareggiare’. Io gli rispondo: cosa vuoi che ti dica, poi ne parliamo con la squadra”.
Alt. Un passo indietro. Eccola qui, la cosa che non aveva mai detto. Al processo, Cruciani affermò che Rossi aveva accettato a patto che lui segnasse due reti. E che poi divise con Rossi, Zecchini e Casarsa l’assegno da otto milioni. Bartolucci confermò il colloquio (in un secondo tempo ritrattò tutto). In un drammatico faccia a faccia con Cruciani, un Rossi imbarazzato si difese dicendo che l’incontro durò pochi secondi, il tempo di sbuffare e andarsene per poi rimproverare Della Martira di avergli “presentato dei balordi“.
Ma la frase “poi ne parliamo con la squadra” non la riferì allora. Poteva peggiorare la situazione? Forse no. Perchè ha poi spiegato: “Io pensavo alle solite partite che si concordano tra due squadre. Se a tutti va bene il pari, si pareggia. Ci sono sempre state nel calcio e sempre ci saranno, anche adesso. Ma al Calcioscommesse non ho pensato mai, non sapevo nemmeno che esistesse. La sera ne parlammo con la squadra ma nessuno era d’accordo, volevamo vincere, il punto non ci interessava. Sfortuna volle che pareggiammo 2-2, con due reti mie. Ma fu partita vera, basta andare a rivederla. Botte, tante, nessuno si è risparmiato. Altro che accordo“.
Ma il processo, e la storia, l’hanno infilata tra le partite marce. “Quella domenica di marzo, nel famoso blitz agli stadi, giocavamo a Roma. Quando i carabinieri arrestarono Zecchini e Della Martira, io e i miei compagni ci chiedemmo cosa mai potessero aver combinato. Non ci sfiorava il pensiero che fosse collegato al calcio. Poi ho saputo e purtroppo sono stato coinvolto pure io. Ma durante tutto il periodo, dalla mia sospensione ai processi, ogni giorno pensavo: adesso salta fuori la verità, l’incubo finisce, non può che andare così. Ho vissuto come se tutto accadesse a un altro. Aspettavo il processo come una liberazione, invece… Lo giuro, mai ho immaginato di poter avere nemmeno un giorno di squalifica. Quando poi la Caf mi ha soltanto tolto un anno, mi è crollato il mondo addosso. Sono scappato a casa a Prato, e ho visto mio padre disperato e mia madre che piangeva: lì ho realizzato davvero cosa mi era capitato. Mi avevano tolto due anni di lavoro, due anni di vita. E ripensai alle parole di Simonetta, allora mia fidanzata: ‘Paolo, attento, ti vogliono incastrare’. Anche ora sono convinto di essere stato strumentalizzato. Federazione e giustizia sportiva hanno voluto usare la mano pesante: non potevano scagionare il più famoso e condannare gli altri“.
Ripensa ai suoi compagni del Perugia. “Sono convinto che anche Zecchini fosse innocente. Della Martira? Un ragazzo piacevole, affabile. Qualcosa avrà combinato, per ingenuità. Facili guadagni? Ma erano cifre ridicole. Forse voleva farsi grande davanti a qualcuno facendo credere di poter truccare le partite. No, mai più visto nè sentito. Certo, un pò di rancore lo provo“.
Paolo Rossi ride, ma dentro rivede l’inferno. E i pensieri girano come un vortice. Li butta lì, come vengono. “Quell’estate mi allenai qualche volta con il Vicenza (al Perugia era in prestito, NdR) ma senza voglia. Provavo disgusto per il calcio. Ho pensato di andar via dall’Italia, di smettere. Dissi: ‘Non mi vedrete più in nazionale’. Mi diedi all’abbigliamento sportivo, con Thoeni. Le cose peggiori? Il sospetto della gente, quegli sguardi… e le notti del sabato, sapendo che al risveglio non c’erano partite ad aspettarmi. Mi ha salvato la consapevolezza di essere innocente. E la Juve“.
La Juventus: nel marzo 1981 acquista Rossi. Manca più di un anno alla fine della squalifica.
“Boniperti mi chiamò: ‘Verrai con noi in ritiro, ti allenerai con gli altri, anzi più degli altri’. Mi sono sentito di nuovo calciatore. La lettera di convocazione adesso farebbe ridere. Diceva di presentarsi con i capelli corti, indicava cosa mangiare e cosa bere. Boniperti era un mago in queste cose. Quando arrivai mi disse: ‘Paolo, se ti sposi è meglio, così sei più tranquillo’. Mi sono sposato a settembre. L’avrei fatto lo stesso, diciamo che sono stato un pò spinto (ride, NdR). Comunque devo ringraziare lui, Trapattoni e Bearzot. Il Trap mi ha allenato con la sua grinta, ci ha messo molta dedizione, Bearzot mi chiamava spesso. Non mi faceva promesse ma mi incoraggiava a lavorare bene, perchè lui mi teneva sempre in considerazione. Fondamentale”.
E arrivò il mese del ritorno, maggio 1982. La Juve gioca e vince a Udine, c’è anche Paolo Rossi in campo. Trapattoni dice. ”È quello di un tempo”. E lui: “Non ricordavo più l’emozione di un partita vera. Due anni di silenzio mi hanno maturato. Proprio in questo momento mi dico: non c’è solo il calcio“.
Maggio 1982: Rossi al rientro dopo la squalifica in Udinese-Juventus 1-5
Ma per lui di calcio, e che calcio, ce ne sarà tanto. La nazionale che stenta in zona gol ha bisogno di lui, Bearzot lo chiama per i Mondiali di Spagna. La memoria svolta sull’estate della gioia. “La convocazione me l’aspettavo, Bearzot aveva fiducia in me, in Argentina ero andato bene“.
Ma le prime partite sono un disastro. Tre pari con Polonia, Perù e Camerun: qualificazione per differenza reti. Critiche, polemiche e Rossi che non segna. Anzi, è un disastro. “Non ero in forma, anzi. Un fantasma. Trovavo difficoltà a fare tutto, era anche un blocco mentale. Ma la fiducia dei compagni e del ct mi hanno dato una carica eccezionale. I ragazzi scherzavano sul fatto che mi reggessi a stento in piedi. Era importante anche la presa in giro. Per lo stress ero dimagrito 5 chili. Mi facevano stimolazioni elettriche alle gambe. E ricordo che il cuoco tutte le sere, alle 22.30, mi portava in camera un bicchiere di latte e una brioche. Finita ogni gara Bearzot mi diceva: ‘Stai tranquillo, ora preparati per la prossima’. Anche dopo la sostituzione col Perù. Eravamo un gruppo eccellente, la prova fu il silenzio stampa di Vigo. Accettavamo le critiche tecniche, ma non le cattiverie gratuite. Si scrisse di tutto: bella vita, casinò, Graziani che aveva perso 70 milioni. Che io e Cabrini stavamo insieme. Per fortuna io facevo la parte dell’uomo (ride, NdR). Non ne potevamo più di stupide illazioni e decidemmo di starcene zitti“.
Dal silenzio alle vittorie. Strepitose: con Argentina, Brasile, Polonia e Germania in finale. Dalle figuracce a un gioco bellissimo. Dal fantasma Rossi al Pablito uomo mondiale. Sei reti, capocannoniere. “La gara con l’Argentina è stata decisiva, vinta giocando bene. Io non segnai, ma stavo meglio. Non pensavamo certo di vincere il Mondiale, però ci convincemmo di poter giocare alla pari con chiunque. Forse nel ’78 eravamo più forti, io compreso, ma questa squadra era un concentrato di carattere. Il primo gol al Brasile, lo ricordo come il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come un senso di liberazione. È incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol, tutto è arrivato con naturalezza. Ma non pensate che ci siamo goduti le vittorie. Una volta qualificati per la semifinale, Bearzot disse solo: ‘Pensiamo alla Polonia’. Sempre concentrati, sempre in apnea fino alla finale. Per questo forse il ricordo più nitido che ho è la sensazione al fischio finale contro la Germania. Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: ‘Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti’. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi“.