Non ho voglia di andare su YouTube a guardare quelle immagini, altrimenti finisce che comincio a sentirmi in colpa. Invece non voglio, invece non devo. È successo e basta, ma all’epoca io non volevo costruirci intorno tutto il teatro che fecero. Platini era una decina di metri oltre la metà campo. Lui era di quelli che sanno vedere uno spazio di campo prima degli altri. Toccò due volte il pallone e lanciò lungo verso la mia area, dove stava arrivando Patrick. Lo chiamo Patrick perché oggi siamo amici, insomma, amici no, ma dopo l’incidente abbiamo ricominciato a parlarci, mi ha anche invitato al suo matrimonio. E comunque. Patrick, cioè Battiston, stava correndo verso la mia porta. Poco fuori l’area, o poco dentro, questo non importa, lui tocca la palla in corsa e la fa ballonzolare in avanti. Io non ero già più lì, ero addosso a lui, lo avevo abbattuto con un colpo dell’anca quando era troppo tardi per prendere il pallone e ancora troppo presto per pentirsi.
La palla era fuori. La prima cosa che davvero mi importava. Cioè. Ci stavamo giocando il posto in finale, la finale della Coppa del mondo del 1982. Francia 1, Germania Ovest 1. Figurarsi se volevo prendere gol a mezz’ora dalla fine. Janvion e Rochetau si avvicinarono a Battiston che se ne stava sdraiato a terra, poi arrivarono medici, massaggiatori, tutta quella banda lì. Io andai a recuperare il pallone e lo sistemai nell’area piccola: c’era da battere una rimessa dal fondo, era quello il mio lavoro. Chi piangeva, chi infilava un dito nella bocca del francese, mi hanno poi detto che aveva degli spasmi, si contorceva, non lo so, non fatemele vedere quelle immagini.
Adesso no. Potrei vergognarmi di me, di me che non mi avvicinai per verificare come stava l’uomo che avevo colpito, mentre anche l’arbitro se ne andava in giro per il campo, senza chiamare la barella, senza neppure un cartellino giallo per me. Gli tenevano il polso, il suo respiro non era più regolare, vidi che lo portavano via sdraiato, la testa chinata su un lato, e io pensai che si stava perdendo un mucchio di tempo, volevo calciare, rinviare e ricominciare. La cosa che conta nel calcio è spaventare l’avversario, intimidirlo. L’attaccante deve pensare che il portiere è un drago volante, che io sono un drago volante, agile come un diavolo. L’area di rigore è mia. La porta è un tempio sacro. Non poteva essere Battiston il primo a cui fare un’eccezione. Gli andai dritto addosso, e adesso giochiamo. Ne prendemmo due nei tempi supplementari, ne segnammo due quando pareva finita: 3 a 3. Rigori. Lo parai a Bossis e a Six. In finale c’eravamo noi, a questo pensavo quando nello spogliatoio ci dissero che Patrick aveva perso conoscenza, aveva due vertebre incrinate e aveva perso due denti. Erano tutti in silenzio, nessuno aveva voglia di parlare, che razza di aria è mai questa, pensai, e dissi che a quel Battiston gli avrei pagato io una dentiera d’oro. Non fatemele rivedere quelle immagini, non adesso che di Patrick sono amico.
Mia madre al telefono mi disse che in tv le era parso un incidente gravissimo, quel povero ragazzo, ripeteva, quel povero ragazzo. I francesi fecero peggio di lei per farmi sentire in colpa. I loro giornali mi definirono un mostro di professione, Le Figaro chiese ai lettori di indicare il tedesco più odiato di tutti i tempi. Ovviamente vinsi io. Secondo Hitler. Mi trasformarono in un simbolo della Germania da odiare. Che cosa ne sapevo io della storia tedesca, della nostra immagine agli occhi degli stranieri? Niente. Ero l’uomo più apolitico che ci fosse in tutta la nazione. All’improvviso diventai il simbolo di una vittoria disonorevole ottenuta contro la Francia, il simbolo di un nuovo sentimento antitedesco. E allora dissi quello che dissi, che Battiston era diventato famoso dopo l’incidente, mentre io lo ero già.
Non mi sono mai fatto troppi problemi a dire cosa pensavo. Quando mi chiamavano erede di Sepp Maier, spiegai che il mio idolo era Turek, il portiere della Germania campione del ’54. Per questo avevo aggiunto il suo nome, Toni, al mio. Harald Toni Schumacher. Un linguacciuto sono. Se c’è qualcuno che in alto decide i castighi in base ai delitti, allora è stato lui. Lui a farmi perdere la finale contro l’Italia, lui a farmi perdere 4 anni dopo un’altra finale contro l’Argentina: errore mio sul gol di Brown, uno che in nazionale neppure avrebbe dovuto giocare, se Maradona non avesse chiesto la testa di Passarella.
Lui a farmi perdere tutto quello che avevo, via dal Colonia e della nazionale dopo la pubblicazione della mia autobiografia. Avevo raccontato che ci imbottivano di efedrina, sciroppi per renderci più aggressivi, avevo scritto dei tanti medici che giravano intorno alla nazionale durante il Mundial in Messico, e ci invitavano a bere, a bere, a bere, a bere poi chissà che cosa, se tanti di noi in ritiro passavano i giorni a combattere la dissenteria. Giravano caramelle e vitamine, certe volte uscivamo in giardino a sputarle. Il libro vendette più di un milione di copie e il calcio mi disse ciao.
In Turchia mi accolsero come un re. Il Fenerbahçe mi riempì di soldi, mi pagava una villa che non vi saprei descrivere e una bellissima macchina. Tre anni di questo ricchissimo esilio. Fino al giorno in cui il Bayern si ritrovò con quattro portieri infortunati e si ricordò di me. Contratto a gettone: 8 partite in tutto, una parentesi poi mi rifugiai al Borussia Dortmund per allenare i suoi numeri uno.
Mi piaceva quel lavoro. Hitzfeld mi chiese di dedicarmi a Klos a de Beer. Mi ripeteva sempre che gli pareva assurdo ch’io avessi vinto un solo campionato, con il Colonia nel ’78. E allora si inventò una cosa che mi commosse: a due minuti dalla fine contro il Friburgo, era il 1996, mi mandò di nuovo in campo, avevo 42 anni. Così c’era anche il mio nome fra i calciatori che avevano vinto il campionato. Mi ha fatto chiudere la carriera con una vittoria. Se c’è qualcuno che in alto decide le ricompense per le espiazioni, allora è stato lui. C’è gente che sostituisce la ragione al cuore. Per me vale il contrario. Nelle mie scelte non è mai prevalso il cervello. Preferisco sbagliare con il cuore. Tutto quello che è grande si chiama vita, e il calcio non nasce dai ragionamenti, il calcio nasce dalla passione.
(Le parole liberamente attribuite a Harald Schumacher sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
Angelo Carotenuto